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La lingua senza eserciti

Proprio in un momento difficile, un momento di crisi, dovremmo aggrapparci alla nostra cultura, rafforzando quell’identità che così fortemente ci contraddistingue e che dovrebbe renderci orgogliosi, invece, proprio perché siamo “colonia nell’anima”, afflitti da quell’ eterno sentimento di inadeguatezza che ci spinge ad essere xenofili ad oltranza, sempre predisposti ad accettare ciò che non è nazionale, proprio per questo, dovremmo dissociarci dall’improvvisa decisione, presa dal Politecnico di Milano, intesa ad adottare – a partire dal 2014 – l’inglese come unica lingua per gli insegnamenti delle lauree magistrali e dei dottorati di ricerca. Persino lapalissiano ricordare come l’italiano sia la nostra lingua “intima”, la lingua degli affetti, con cui dialoghiamo fin dalla prima infanzia, elemento identificativo del nostro Paese. È nientemeno che la lingua della Divina commedia in massimo grado apprezzata da poeti quali Ezra Pound e T.S.Eliot, che hanno reso addirittura intertestuali i loro componimenti con quello del sommo Dante, poeta “inevitabile” per il mondo intero, stando a quanto dice Ismail Kadarè. Persino l’aspetto fonico della nostra lingua merita rispetto, poiché in essa ‹‹il sì suona›› (Dante, Inferno, Canto XXIII), non trascurando l’eleganza timbrica ed espressiva che la contraddistingue.
Inevitabile, a questo punto, citare brani della bellissima e accorata lettera di Alessandro Masi, segretario generale della Società Dante Alighieri che , fra l’altro, precisa come si sia ‹‹diffusa per il mondo senza avere la volontà di dominarlo, dimostrando nei secoli il suo carattere di “lingua leggera”, secondo la bella definizione di Francesco Bruni: “Una lingua senza eserciti.” È stata la lingua dei grandi banchieri fiorentini, dei commerci, della scienza e dei libretti d’opera (Osip Emil’Evic Mandel’Stam). Questo è stato l’esercito che ha promosso l’italiano al rango di lingua di cultura sia che si trattasse di recitare Dante o di ascoltare Verdi, di comprendere le teorie di Galileo o di leggere le parole dell’arte di Vasari. Per questo motivo, il patrimonio di idee racchiuso nelle nostre parole dovrebbe essere costantemente a disposizione degli studenti di tutto il mondo in ogni percorso formativo, in modo da accompagnarli per tutta la vita, anche e soprattutto sul lavoro. Rinunciarvi significherebbe cancellare l’elemento che più di tutti ci distingue dagli altri . . .››
Naturalmente, nessuno nega quanto sia fondamentale lo studio delle lingue vive, con particolare attenzione all’inglese. E qui, aggiungeremmo anche alle lingue morte, poiché solo chi conosce il latino e il greco ha sicurezza lessicale in fatto di etimo e accenti, questi poveri accenti che sentiamo storpiare – scritti e parlati – anche da persone di così detta cultura.
Come non approvare l’epilogo della lettera di Alessandro Masi, quando afferma che il suo intento non è quello di ‹‹difendere l’italiano da un nemico, perché non siamo in guerra con nessuno. Le lingue non si fanno la guerra. La sfida dovrebbe essere quella di immaginare percorsi di studio in cui dall’incontro fra il proprio mondo e quello degli altri ogni studente esca più ricco e più forte, in cui la parola d’ordine sia “più lingue”, e mai “meno”. A cominciare dall’italiano che sul tavolo dell’economia globale è una delle nostre carte da giocare insieme al vasto patrimonio d’arte››.
Grazia Giordani
Pubblicato martedì 7 agosto 2012



Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 08 Settembre 2012

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