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Azzurro, l'Africa tra le braccia di Paolo Conte

Settembre 1976. Sulla pista da ballo, più liscia della seta, volteggiavano coppie di tutte le età. Eravamo sull’Eugenio C, la mitica nave da crociera che ci stava portando in Medio Oriente. Di per sé non sarebbe stato un fatto tanto speciale, se il corpo medico dell’ospedale di Legnago – di cui faceva parte mio marito – non avesse portato per la prima volta in viaggio un gruppo di dializzati che necessitavano di apparecchiature speciali per la sopravvivenza. Anche agli ammalati in dialisi, dunque, quella sera di settembre e per una quindicina di altre sere ancora, fu dato di vivere normalmente e ballare come tutti gli altri ospiti del viaggio. Intrattenitori delle serate erano due cantautori ancora non proprio notissimi: Paolo Conte e Luciano Willinger. Entrambi in compagnia di splendide mogli. Vicini di cabina, avevamo fatto amicizia e condiviso il privilegio di cedere il nostro posto per la visita in Terra Santa agli ammalati che, altrimenti avrebbero dovuto rinunciare all’opportunità. Noleggiando un taxi, ci siamo accontentati, felicemente, di godere di in una Betlemme, radiosa di sole. Con noi c’era anche nostro figlio Eugenio che – data l’omonimia con la nave – ha ricevuto dal capitano una miniaturizzazione dell’Eugenio C, graditissimo dono.
Un viaggio pieno di sorprese. Nuotavo in piscina con Carlo Loffredo che la sera ci allietava col suo banjo e proprio su quella lucida pista da ballo ho danzato una sera con Paolo Conte, in sosta dalle sue mansioni di animatore della serata. Ricordo la sua classe e spontanea signorilità, la sua sobria conversazione, venata di ironia, come ironiche sono spesso le sue canzoni. Era l’epoca di “Azzurro” che, forse, avevamo, in quegli anni, sentita più dalla voce di Celentano che da quella del suo autore. Nessuna canzone avrebbe potuto rendere meglio l’atmosfera di quel viaggio, in cui – se non ci siamo ristorati sotto un baobab, abbiamo visto in Egitto, ad Alessandria, le “mamme dai lunghi capelli”, così gli abitanti del luogo chiamano delle chiomate piante, piene di mistero. Conte e Willinger condividevano con noi molte soste diurne del viaggio: visite alle moschee, acquisti nei bazar, l’aria tinta di viola che aleggiava attorno al lago di Tiberiade.
Mio marito diceva: ‹‹Questo artista è destinato ad un grande successo››. E non si sbagliava. La voce particolarissima di Conte, così carnale e carica di pathos e i testi insoliti delle sue canzoni, rendevano facile la profezia. Inoltre, niente arie, niente spocchia, un‘adorabile naturalezza.
Allora, sembrava tutto scontato. Non vivevamo l’eccezionalità del caso, molto presi dall’ammirare i paesaggi esotici, gli usi diversi dai nostri, le conversazioni così interessanti, la consapevolezza di fare del bene agli ammalati che portavamo con noi.
Avidi di novità, non eravamo del tutto consci di vivere giorni speciali di cui ora riassaporiamo il valore, persi dentro il ricordo di quell’ “Azzurro” che ancora ci risuona nel cuore.
Grazia Giordani
pubblicato sabato 22 dicembre 2012 nei consueti quotidiani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 20 Gennaio 2013

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