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Il demone della modernità in mostra a Rovigo
DIAVOLO CHE ARTE
«Il demone della modernità»: l'inquietudine in pittura agli inizi di un Novecento affascinato da occulto e male. Brividi evocati dalla New York fiammeggiante
Confortata dal successo dell'«Ossessione nordica», la precedente mostra a Palazzo Roverella, Rovigo persevera nel filone inquietante con «Il demone della modernità», che da oggi al 14 giugno espone nella stessa sede incubi e allucinazioni luciferine di «pittori visionari all'alba del secolo breve». Anche i cieli d'antracite polesani di quest'inverno sembrano giusto fondale alle scelte intelligenti del curatore Giandomenico Romanelli. Nelle belle sale ci si tuffa nei meandri dell'inconscio, per risalire verso luci metafisiche: montagne russe dello spirito. Un multicolore noir pittorico, quasi un thriller d'arte che fa passare dalle icone dell'universo simbolista, graziati dalla scoperta di un'arte esclusiva e misteriosa, alla rappresentazione drammatica, talvolta subliminale, della guerra come massima follia.
Impossibile tacere il raffronto tra letteratura, poesia e arti figurative. Il travaso tra le varie espressioni artistiche è imprescindibile, qui respiriamo gli spiriti oscuri e allucinati di Poe e Baudelaire, senza dimenticare echi nietzcheani che ancora pervadono il primo Novecento. Le nuove forme di vita, le metropoli, le tensioni sociali saranno colte dagli artisti che qui porranno la radice della loro modernità. Sarà proprio il disagio socioculturale a originare il nuovo lessico. Ecco da dove viene il mondo luciferino, fatto di illuminazioni sulfuree e di cupe ombre che parlano di morte.
Sedotti e seduttori ammaliano in egual misura, facendoci sostare, con animo sospeso, di fronte alle Salomé lascive, provocatoriamente danzanti, di Gustave Moreau o facendoci apprezzare la diafana finezza di Odilon Redon, per giungere alle originali interpretazioni di Max Klinger e di Franz von Stuck, entrambi allievi del grande Boecklin, di cui sono i seguaci più arditi.
L'esposizione pone in sapiente luce anche il susseguirsi delle metamorfosi. Lo stesso Alberto Martini compie una svolta, piegando la sua vena satirica e noir verso esiti di levità ammiccante. Il calligrafismo di matrice nordica mostra il suo ascendente su artisti italiani, ammiratori dei maestri tedeschi largamente accolti alle Biennali veneziane, lasciando un marchio in Guido Cadorin, Bortolo Sacchi, Astolfo De Maria e Cagnaccio di San Pietro. Cammino contrario vedremo compiere invece a Chagall che qui si allontana dal tema dei peccati capitali. E non ci stupisce, perché gli artisti sanno essere in contraddizione anche con se stessi; a loro tutto è concesso. Irrompe anche una modernità inquieta e tempestosa, prefiguratrice di morte e, nel contempo, sfrenata celebratrice di un vitalismo scoppiettante, proteso verso nuovi lessici, nuove conquiste e nuovi miti. Le contaminazioni tra i generi s'intrecciano, si accavallano, quasi giocano un estroso pingpong che rende sempre più inquietante il viaggio tra le tele. Quelle che Gennaro Favai realizza in occasione del suo viaggio a New York negli anni Trenta, sono lo specchio della metropoli americana dal dinamismo elettrico. Favai non può più essere letto alla stregua di un vedutista superato, mostra di essere l'interprete di un mondo che guarda avanti. Le sue immagini di New York dialogheranno in chiusura con il cinema impressionista fine anni Venti.
Si esce con gli occhi pieni di stimoli da autori quali James Ensor, Franz von Stuck, Odillon Redon, Boeklin, Moreau, De Maria, Martini, Cadorin, Cagnaccio, solo per citarne alcuni: una polifonia di immagini che si contrappone alla musica di Wagner, in una mostra che evidenzia ciò che pareva desueto, affascina chi sia disposto a farsi almeno un po' tormentare.
Grazia Giordani
L'Arena 14/02/2015
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 14 Febbraio 2015