I racconti di Grazia
Premonizione
Soffocai uno sbadiglio dentro il cavo della mano sinistra, visto che la destra era occupata a sollevare la tazzina di caffè bollente, poco zuccherata, che stavo portandomi alle labbra. Normalmente posso fare più cose alla volta. Non è una vanteria, la mia: posso pensare a livello elevato, agire banalmente per espletare le cose piccole della quotidianità, e intanto rispondere a chi mi parla, come se il mio cervello si scindesse, pur restandosene unito.
Dico tutto questo per farvi meglio entrare nella scena. Insomma vorrei farvi posto, far sì che non foste semplici lettori dei miei avvenimenti, così importanti, per me, da doverne scrivere di getto.
Siamo rimasti alle mie mani alzate. Mani speciali - hanno sempre detto di me le donne - per il palmo robusto, in netto e nel contempo armonioso contrasto, con le dita eleganti, rese agili dai molteplici lavori svolti durante il mio cammino di ragazzo povero che si è fatto da solo, orgoglioso dei traguardi raggiunti.
Adesso devo dirvi dello sguardo (la scrittura non mi permette la contemporaneità: spetta a voi uno sforzo di immaginazione per assemblare pensieri, parole e gesti); i miei occhi si sono soffermati a lungo, senza ritegno - devo dire -, non ostante una mia iniziale timidezza nei rapporti umani, sui glutei di una signora.
Non vi era nulla di lascivo in questo mio osservarli; non si trattava di un culetto provocante, era un derrière smilzo, nemmeno particolarmente sporgente, chiuso, ma non fasciato, dentro jeans marrone cupo.Prima ancora di far scivolare lo sguardo lungo il dorso di quella corta giacca di pelliccia, sapevo che avrei incontrato, dall'altra parte, un volto interessante.
Certo, vi sembrerà quanto meno stravagante questo mio modo di valutare una donna partendo dal suo fondo schiena, come se esistesse un'intelligenza delle terga, eppure vi garantisco che non mi sono sbagliato mai.
Non sono attratto, in questo senso, dal sedere perfetto - quello può piacermi per altre ragioni, puramente sessuali -, il tipo di pulsione prepotente che provai immediato per quella donna, aveva ed ha un incipit interiore, difficile ora da rendere sulla carta, perché ci sono proustiani soprassalti del cuore che sembrano partire dalla carne, ma non sono del tutto carnali.
Finalmente si voltò. Ma non attendevo con ansia questo momento. Già sapevo, come era, gioiosamente trafitto da una rassicurante premonizione.
Poteva avere - grosso modo - una ventina d'anni più di me, ma questo non diminuiva il suo fascino ai miei occhi. Il gioco sottile dei canoni rovesciati, percorso da una geometria spettinata, senza regole, qui si faceva più intrigante che mai.
Delle mie mani e delle nostre età anagrafiche vi ho già detto; ora vi aggiungo la notizia del volto di lei: naso lievemente aquilino a fare da punto centrale di un viso con occhi piccoli e bocca grande, il tutto contenuto dentro la campitura di una carnagione ambrata e incorniciato da una chioma a mèches contrastanti castano bionde. In versione più regolare e delicata poteva e può assomigliare ad una Barbra Strheisand più dolce e femminile.
Di una donna così Carducci, come si era pronunciato riguardo all'amata Annie Vivanti, avrebbe detto: "non è bella ma è più che bella", pronunciando l'omaggio più alto che si possa fare all'"eterno femminino".
Provai un piacevole guizzo interiore quando i miei occhi si persero dentro la lieve asimmetria del suo sguardo. È difficile spiegare come certi difetti, assemblati insieme, possano diventare un mostruoso disastro e come gli stessi - collocati in altro modo - possano regalarci un mix di attanagliante fascino.
Non avevamo più caffè nelle tazzine, eppure restavamo tutti e due, come in una scena al rallenti col braccio alzato in parallelo, quasi temessimo di spezzare l'incantamento.
Lo sguardo color liquirizia della signora si perse ancora, per una frazione di secondo, dentro la trasparenza verde-bruno dei miei occhi.
Un sorriso appena accennato increspò le labbra di entrambi.
Fu lei la prima ad abbassare lo sguardo, per percorrere, partendo dal basso, la mia mise casuale, di uomo che predilige gli abiti comodi e sportivi, facili anche per la manutenzione, nella mia vita da "singolo".
Il brillio sornione di tre fili di perle che le cingevano il collo, comparve per scomparire in un lampo, quando si allacciò meglio il colletto della corta pelliccia; mi piacque il contrasto fra il candore perlato della collana e il rosso cupo della lacca sulle sue unghie curatissime; unica nota forte, quella vernice dal colore deciso, visto che il maquillage sul volto era delicatissimo, un capolavoro di bravura nel valorizzare i lineamenti senza appesantirli.
Avvicinandomi un po' di più fui colpito da un'onda profumata, un cocktail speziato che sapeva d'oriente e fortemente di lei.
Sentii caldo nel ventre e sapevo che la mia enigmatica signora stava provando lo stesso calore; giù in basso dove lei era più donna, in simmetria a dove io cominciavo a provare imbarazzo, tenendo chiusi con la mano i lembi del giaccone invernale.
Uscimmo insieme, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Eravamo entrati dentro la sceneggiatura di un film muto che presto - sapevo - avrebbe acquistato il parlato, con i suoi debiti sfondi fonici dei rumori della strada, dello sferragliare dei tramvai, dei clacson degli automobilisti impazienti, del rumore della folla, musica dodecafonica, dal controcanto atonale.
La sua voce, sulle prime, mi giunse straniera agli orecchi.
Con l'aristocrazia del suo aspetto, secondo le mie aspettative, si sarebbe meglio accordata una pronuncia senza sbavature regionali.
Provai una iniziale, piccola delusione, presto fugata quando quella sua voce dai toni mutevoli, cominciò ad entrarmi dentro, a divenirmi interna, una voce del suo mondo che entrava nel mio, per quel processo osmotico che solo l'amore, quello vero sa operare.
Sì, l'amore.
Perché proprio di questo improvviso, irrazionale, aggrovigliato sentimento, ambedue non dubitammo fin da subito che si trattava.
Canoni rovesciati in tutto, insisto.
Difficoltà grandi - sottolineo - per spostamenti geografici e situazione anagrafica della mia donna che non era libera da vincoli coniugali, ma quando il sentimento è inevitabile, come una malattia infettiva (scusate il paragone che forse non è elegante, ma rende bene l'idea di un mitico destino più grande di noi, di quella greca anànke, necessità a cui gli umani non possono sottrarsi), si ha un bel ragionare che "sarebbe meglio di no, restiamo solo amici…"; col cavolo, per non dire di peggio, restiamo amici; sì, siamo anche amici, ma in procinto di diventare amanti, persi dentro una fiumana di desideri limpidamente perversi.
Oddio, perdo sempre il filo, anche perché solo il parlarvi di questa nostra passione di braci ardenti, di questo feeling dei nostri cervelli, tanto simili nella nostra diversità, nuovamente mi fa dolere l'inguine e muovere la mano, ricordando la prima volta che lei, poco dopo esserci conosciuti, lo ha fatto nella discreta stanza dell'alberghetto in cui alloggiava, non molto distante da casa mia, arrivata la notte prima a M***, per un servizio giornalistico: doveva intervistare uno scrittore francese, inviata culturale di un importante quotidiano.
Se un amico mi avesse raccontato che una donna - incontrata in un bar -, dopo una passeggiata a piedi per le vie caotiche della città, se lo era portato a letto nel suo albergo, senza dire né ahi, né bai - per di più maritata con figlio - avrei pensato: "che troia!". Invece, vedete che non si può mai dire!!! Vedete che bisogna esserci dentro le situazioni.
Lei credette al mio amore-attrazione improvviso, ineluttabile.
Io credetti alla sua pulizia morale, pur nella trasgressione.
Al suo essere nuova ad avventure (so bene che questa non è la parola giusta, ma la uso per comodità!) realmente vissute, seppur lungamente sognate, come nel tempo appresi dalle sue parole e dai suoi scritti.
Salimmo le scale tenendoci per mano.
L'ascensore era occupato e noi eravamo troppo impazienti.
Non sapevamo aspettare.
Nella penombra della stanza, dalle persiane socchiuse, filtrava un alfabeto contorto di frasi di sole gioiosamente forti, come i nostri incontenibili sentimenti e desideri.
Le chiudemmo.Faceva freddo e lei rabbrividiva, muta.
La spogliai piano, senza violenza.
Quel mattino ero in vacanza, non dovevo andare all'università. Che caso fortunato!
Prima la pelliccia.
Poi il golfino di lana nocciola.
Quindi la gonna marrone in parure di tinta con la pelliccia.
Via, il sottabito di seta beige.
Via, il reggiseno dello stesso colore, da cui uscirono due seni forti, pieni, al cui centro fiorivano i boccioli bruno-scuro dei suoi capezzoli già turgidi, duri come il mio.. insomma avete capito cosa intendo…
Via le mutandine, già fradice del liquido piacere, rese trasparenti da tutta quell'umidità che continuava ad uscirle a profluvi, inorgogliendo il mio membro che - da dentro i calzoni - si faceva sempre più duro ed eretto.
Mi toccò nel profondo vedere quel monte di Venere abitato da una peluria scura ed omogenea, dolce capigliatura intima della mia preziosa donna.
Allungammo le mani in contemporanea: lei per slacciarmi i calzoni, e senza denudarmi subito del tutto, estrarmi quell'irto serpentello amoroso che le andava stretto nel cavo della mano, ingorda ed esitante a un tempo.
Io per placarle subito la voglia più violenta, per sentirla gemere immediatamente, attenuandole quella prima fiammata, per iniziare poi tutto in ordine, dal bacio sulle labbra, dall'intreccio di lingue, dal succhiarle quel bocciolo sporgente di carne che le urgeva dentro il fiore bruno del suo ventre, secondo le regole che avevamo scompigliato, anticipando alcuni gesti, sopraffatti dall'emergenza del momento.
Tanto a noi i canoni si è gia visto che interessavano meno di niente.
Mi parve strano che una donna maritata fosse così inesperta, sensualissima senza scuola, pensai.
Mentre la possedevo e lei possedeva me, parlammo anche.
Mi narrò tanto di lei.
Delle sue carenze sessuali nel matrimonio.
Del suo essere stata ritenuta frigida.
Delle sue difficoltà orgasmiche coniugali.
Alba mia!
Mia dimora!
Mio risveglio ad un amore impossibile reso fattibile dalla forza del nostro volerlo!
Ho avuto mie coetanee, più giovani di me, nella mia vita non lunghissima di uomo che ha amato , è stato riamato, ha convissuto; ma mai avevo incontrato una donna che mi intrigasse con tanta prepotenza, che mi commuovesse, "arrapasse", impegnasse nell'insegnarle mille cose da quelle pratiche a quelle intellettuali, pur imparando molto anche dalle sue malinconie, dalle sue sconfitte, dalle sue rinunce.
Irritato un po' dai suoi dubbi, dalle sue paure, dalle sue diffidenze; naturali, a pensarci bene: non conosceva nemmeno il mio cognome, il mio indirizzo, né io il suo.
Sembravamo i protagonisti di Ultimo tango a Parigi, così ignoti ed indispensabili l'uno all'altra.
La penetrai dolcemente, dopo averla baciata ovunque.
I suoi orgasmi erano tanto squassanti da inorgoglirmi sempre più, arricchendo i miei di emozioni nuove, proprio quando credevo di aver imparato tutto nel mondo dell'eros.
Godevo di una gioia straziante. Felice di farla felice.
E già pensavo alla separazione.
- Come faremo?
- Qualcosa troveremo.
- C'è il telefono.
- Ci sono le mails. Distiamo a quasi trecento chilometri. Non guido la macchina. Viaggio rarissima mente sola.
- Sono quasi prigioniera.
- Non piangere, piccola.
Le ombre della sera non sapevano scrivere la fine di un storia appena iniziata.
Riottose, stampavano sui muri storie di lacrime gioiose, di palpiti ubriacanti, di promesse d'amore forti come patti inscindibili.
L'avevo trovata la mia donna da sempre cercata.
Amavo anche il piccolo reticolo intorno ai suoi occhi.
Mi intenerivano quei segni lasciati in lei dall'età.
Mi facevano esultare certi suoi entusiasmi adolescenziali.
Era mia, mia, mia.
Avrei voluto viverle accanto.
Guardarla vestirsi e svestirsi nella quotidianità.
Amarla in ciabatte.
Quando si sfilava le perle da aristocratica.
Quando sbucciava le patate da massaia.
Quando godeva senza ritegno, mia scolara in tutto, anche di linguaggio erotico.
Com'era buffo il suo iniziale parlar d'amore come un manuale di anatomia.
Mai volgare nemmeno nei momenti di eros più sfrenato, quando mugolava di piacere e si voltava a darmi parti del suo corpo, finora inviolate.
Certamente qualcosa avremmo trovato.
A luglio avrebbe goduto di pause marine di solitudine.
Ne avremmo approfittato.
Non è tradimento.
È sopravvivenza.
Avrei portato via parte del pane a chi non vuole più mangiarlo.
Ero certo che avremmo trovato un modo senza nessuno ferire.
L'indomani l'accompagnai al treno.
Era sempre in me.
Ero sempre in lei, incantata dalla mia intelligenza.
Aveva aspettato da sempre un uomo così, mi diceva.
Eravamo anche dentro i nostri due cellulari.
Avremmo abitato anche nei nostri computer.
Volevo regalarle una pagina web con noi dentro, per l'eternità
Eppure, un'amara premonizione già bussava dentro il mio cervello, seppure ignorata, volutamente respinta dal mio cuore.
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006