I racconti di Grazia
L’ultima Ginevra
La vita nell’appartamento di Manrico si era fatta stagnante, un’esistenza da placidi sposi non sposati. E Ginevra temeva il tarlo della routine non meno del suo compagno. Decisero allora di cercare una casa sul monte, una dimensione “arborea”, naturale della vita.
Manrico aveva un concetto tutto suo della vita da innamorati che non hanno bisogno del pane quotidiano. Vivono di poco e si danno reciprocamente, giorno e notte, tutto quello che hanno, resi perfetti e completi dal dono ricevuto dall’amante. A coloro che sanno amare con questa dedizione assoluta – pensava – si dovrebbero dedicare paesaggi, montagne incantate, il mare aperto e le grandi praterie, l’immensità del cielo su tutti gli orizzonti. Non è dunque, anche per il Poeta «l’amor che move il sol e l’altre stelle»?
Partirono all’alba, decisi a trovare un alloggio “silvano” – così lo definirono all’unisono – e dobbiamo dire che furono fortunati.
Un rustico, mezzo soffocato dai rovi, sembrava aspettarli a mezzo monte. Si accordarono con i proprietari. Vendettero mobilio e suppellettili dell’alloggio cittadino, trasferendosi in una casa-grotta che non offriva nessuna comodità, ma che a loro parve un angolo di paradiso, un modo per fuggire dal convenzionale, dagli stereotipi della vita borghese.
Lumi ad olio e candele sostituirono la luce elettrica. Una radio a pile fu l’unica finestra sul mondo che seppero concedersi. Riempirono i rozzi scaffali di libri, tanti libri e ancora libri. Riattarono una vecchia stufa., ingozzandola di legna che Manrico tagliava a colpi d’ascia.
«E se ci vede il guardaboschi?»
«Figurati se passa in questi luoghi desolati…»
***
Il tempo scorreva lento, ma non certo monotono.
Ginevra gli comunicò che aspettavano un figlio, un figlio che sarebbe nato nella natura, secondo i loro sogni.
Una gravidanza gioiosa rese facile lo scorrere dei mesi.
Toccò a Manrico il compito di aiutare quell’atteso figlio a venire alla luce, in una notte di luna, una dolce notte.
Lo afferrò all’uscita, senza incertezze, recise il cordone ombelicale, lo lavò, l’asciugò, l’avvolse nei pannicelli già preparati. Si sedette accanto a Ginevra, spossata, ma felice come se stesse vivendo nelle pagine di una favola.
Del resto era una realtà magica quella che stavano vivendo.
Il novello padre, fierissimo di quel figlio “stella polare della loro nuova esistenza” – così l’aveva definito – accese il fuoco. Tirò la tendina. Il sole irruppe violento, coprendo tutto di luce e d’armonia. Si fece silenzio totale. Il bambino parve sorridere al padre e alla madre e ringraziare il mondo di essere nato.
Fuori, le cime delle montagne splendevano di neve, gli abeti stavano raccolti in un’attesa mattutina, il torrente sussurrava appena appena per non svegliare il mondo. Volavano i passeri senza fare alcun rumore, solo lo scoiattolo squittiva su e giù lungo i tronchi degli alberi.
All’improvviso, un rombo sordo ed insistente, prese a salire dalla valle rendendo inquieta la pace dei boschi immersi nel silenzio panoramico del tempo. Come un velame leggero avvolse la montagna, quasi volesse soffocare la immensa vastità dell’alba.
Manrico ebbe subito un sussulto. Gli parve di udire un grido repentino lacerare l’aria della vallata: un ricordo d’infanzia doloroso lo sorprese. Lo feriva ancora l’urlo strozzato di un piccolo maiale che chiedeva aiuto al mondo. Nel momento in cui i contadini in festa lo trascinavano alla morte. Lo tiravano in tanti con una cordicella stretta al naso, lo estraevano dal suo ricovero abituale, lo stendevano sul tavolaccio, in tutta la sua lunghezza, gli piantavano un coltello al cuore. Ne raccoglievano il sangue nel paiolo.
L’urlo della morte coincideva ora col canto della vita, quella appena nata, adesso in grembo alla sua donna, all’ultima Ginevra. Figlio e madre davano luce piena alla sua esistenza, . che un tempo era stata notte senza pleniluni.
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006