I racconti di Grazia


Il puzz

Il puzz

Con il secondo matrimonio di mamma, rimasta vedova del suo primo marito, abitavamo nell’ala di servizio di un antico palazzo nobiliare tardoquattrocentesco. La cucina assomigliava a quella del castello di Fratta, così ben descritta da Ippolito Nievo. Vi si respirava la stessa atmosfera. L’ingresso sembrava un eterno vernissage artistico, perché – essendo stato il papà uno scultore di talento – qui si concentrava la maggior parte delle sue opere e soprattutto i quadri che scambiava coi pittori del suo tempo. La sala da pranzo era arredata con mobili laccati chiari, tipici del Ventennio, e qui c’era un gran divano che – la notte – per i primi tempi, diventava il letto di una bambina terrorizzata da un Cristo in cera che la guardava severamente, quasi minaccioso, illuminato dai guizzi di luce che l’avarizia delle tende non riusciva a schermare. Una casa bizzarra, un po’ come lo erano i miei genitori: la mitica Hena, musa ispiratrice del suo primo marito - morto trentacinquenne - e i due coniugi così dissimili per mestiere, temperamento e scelte di vita, ma non banali entrambi.
Al piano nobile vivevano gli aristocratici Garbin. Lei, la contessa, era una Solez Splendore (che bel cognome!), donna finissima. Il marito svolgeva la professione di notaio ed era così parsimonioso, che conservava l’olio nell’archivio dei suoi documenti e lo concedeva a misurate gocce a Jone, la cameriera-cuoca, che doveva mangiare cibi diversi dai padroni, perché noblesse obblige.
Mi piaceva scendere al piano nobile, accolta dalla calorosa disponibilità verso i bambini, da quegli inamidati signori che mi offrivano magri biscotti o piccole loro delizie che non sapevano di niente. C’era grande attesa, in casa loro quel mattino, per l’arrivo dei cugini di nobiltà più alta, i Branca, quelli del Fernet. Fanny era un’adolescente graziosissima, anticonvenzionale, diversa dalle cugine di nobiltà campagnola, non propriamente graziate da Venere. Mi sembrava che una fosse fatta come una caffettiera e l’altra avesse le rotondità di un a teiera. Nella mia ingenuità infantile, fantasticavo che – se avessero avuto figli – ne sarebbero nate delle tazzine (o dei tazzoni?).
Guardavo, ammirata, i volteggi dell’eterea Fanny che si aggirava per la stanza, criticava sorridendo, provava le molle del divano, quando – nel silenzio generale – si avvertì un suono non proprio di violino. Tutti ammutolimmo increduli.
«Non è nulla – esclamò, con voce flautata – la padroncina del Fernet – mi è scappato un puzz.»
«Che cosa, che cosa? – chiedeva, impensierito il conte-notaio che era un po’ sordo».
«Un puzz! – ripeteva la contessina, spazientita dall’ottusità dei parenti di campagna»
Risalita a casa, raccontai l’episodio alla mia ironica mamma che mi rispose, ridendo:
«Non farci caso, bimba mia, quando sono nobili, anche i puzz diventano blasonati e odorano di violetta.»



Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 21 Gennaio 2009

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