I racconti di Grazia
Mare d'inverno
Mare d’inverno
Credevo scherzasse. Faceva sul serio, invece, più rapida nel muoversi che nel dire, tanto dava per scontato che l’avrei accompagnata verso il suo tanto amato mare invernale. Valigetta pronta, scarpe da casa rapidamente sostituite con calzature più robuste, la riottosa soltanto nel volermi accontentare (ricordate la mia richiesta di una biografia?), ma fulminea nel prepararsi al viaggio - non sapevo nemmeno verso quale precisa località -, ha indossato un corto giacchetto di un’improbabile pelliccia, suppongo sua coetanea, chinandosi poi ad arrotolare alla caviglia i risvolti dei jeans scoloriti, con la disinvoltura di una ragazza.
Speriamo di persuaderla durante il tragitto in auto, mi sono detto.
Vedovo da anni, i figli fuori casa, non dovevo giustificarmi con nessuno. Potevo andare ovunque, denaro permettendo. Anche per questo motivo avevo cominciato a palpeggiarmi le tasche, prima di salire sulla gelida auto, lucida di ghiaccio. E se avessi scordato nel cassetto lo sguarnito portafoglio o l’altrettanto magra carta di credito, costantemente a dieta?
Quasi mi leggesse nel pensiero, la mia fortuita – non oserei definirla fortunata – compagna di viaggio, mormorò, aspra, quasi senza guardarmi in volto: «Non pensi alle spese. Quello è affar mio».
«Non sono ancora diventato un gigolo, Signora, dissi cercando di apparire spiritoso» .
«Non s’illuda. Per me ci vuole ben altro. È solo che mi seccava prendere un mezzo pubblico. E poi, tutto sommato, la sua storia m’interessa. Sono una ladra di racconti…»
«Intende dire che userà per sé la mia storia?»
«Forse che sì, forse che no. Del resto dovrebbe ritenersene onorato».
Ma lo disse col suo impercettibile sorriso obliquo che regalava mistero a quel suo insolito volto triangolare, dove le rughe attorno al mento non davano fastidio, quasi una cipria del tempo l’avesse ingentilito.
La Lotus fece i soliti capricci. Singhiozzò più a lungo del consueto, prima di entrare in marcia con un gemito lungo, anche lui partecipe dei miei umani dolori.
«Che strada prendiamo?»
«Verso Volano, nel Bassoferrarese. Là posseggo da anni un minuscolo monolocale, quasi un ventre materno. Ma non pranzeremo in casa. Ci sarà certamente qualche locale aperto, anche se siamo del tutto fuori stagione.»
M’imbarazzava l’idea di questo tête à tête con una sconosciuta. Condividere un pasto non è solo posizionare all’unisono posate all’interno della bocca, piene di cibo che magari non ti piace. Sono astemio e, una volta, in Scozia, ho fatto morire quasi un intero giardino, irrorandolo del wisky che non riuscivo ad ingurgitare. Però, la speranza di indurre l’imprevedibile signora ad interessarsi veramente alla mia biografia, mi ammorbidiva e piegava fino al punto di mostrarmi arrendevole.
«Questi sono stati i luoghi delle mie beate vacanze infantili – mi raccontava, con voce addolcita, le guance ravvivate da un calice di vino di cui m’infastidiva persino l’odore (ormai sapete quanto sia schizzinoso il mio olfatto) – arrivavamo in questa spiaggia, allora desolata, veleggiando lungo il Volano. Era solcato da vele di molti colori. C’erano i burchi dei comacchiesi che vivevano la loro pigra vita corale di gente d’acqua, all’aperto, senza ritegno. Avevano, sulle loro barche, il cane, il gatto, il lavoro a maglia, la suocera, lo zio e sempre risonanti zoccoli di legno ai piedi. Parlavano una lingua strascicata e comprensibile, forse, solo a loro, tanto ostica era ai nostri orecchi. Le donne erano pienotte, languide nell’occhio e candide nella pelle. I fiume aveva un fascino quasi magico su di me e questo senso dell’acqua mi è rimasto nelle vene come una voce cantante; raramente mi abbandona e mi fa pensare ai perlati grigiori del Tamigi, alla canzone senza fine delle vene sotterranee di Granada, allo sciabordio del mare aperto, al satanico suono della tortuosa cascata del Varone, come se tutte le acque avessero un’origine unica, per poi differenziarsi secondo cause contingenti…»
Che lagna! – pensavo fra me e me, sempre più desideroso di interromperla, per riprendere il filo della mia disgraziata infanzia sarda, dei colpi mancini che mi aveva inferto la vita.
«Beata lei, Signora, che ha avuto un’esistenza così piena di dolcezza, mentre io facevo il pecoraio, il necroforo di bambini, quasi il mendicante…»
«Stia zitto, non interrompa il flusso dei miei lirici ricordi. Dal fiume ebbero origine le mie prime vacanze al mare. Dopo due ore o più di lentissima navigazione, accompagnati in cielo dalla bianca ala di famelici gabbiani, sul barcone dal rumore assordante del motore e dal cicaleccio delle varie nonne e mamme onuste di prole e di sporte, credo che avremmo mangiato anche un piatto del Burundi. A proposito, anzi a sproposito, lei non sta mangiando e bevendo quasi niente. L’annoio, forse?»
«No, no. È solo che speravo di interessarla alla mia vita. Agli altri casi dolorosi che mi sono capitati: moglie morta giovanissima, dopo atroci sofferenze, una giovane cognata, finita sotto un camion, una figlia caduta nel tunnel della droga….»
«Quisquilie, ma cosa vuole che sia! Banalità della vita di tutti i giorni, prive di poesia. La gente non ne può più di questi fatti noiosi. Ormai nulla fa più notizia. Non vede com’è diventato il mondo? Si è fatto tardi, riprendiamo la strada di casa, non prima di aver fatto una corsetta digestiva verso il litorale».
Rapida, pagò il conto e si diresse verso un mare incolore come le sue vecchie chiome, mentre un fiacco sole tentava di aprirsi un varco in un cielo di latte.
Oddio – ho pensato – mi ha attaccato la malattia e mi son messo a parlare quasi come lei, mentre meditavo e ponevo in atto lo sleale proposito di salire sulla Lotus che partì ubbidiente e complice nell’abbandonare quell’egocentrica scrittrice dentro l’estasi dei suoi ricordi.
Grazia Giordani
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 29 Dicembre 2013