I racconti di Grazia


L'incontro

Nel mezzo di una mattinata autunnale, tipica della nostra pianura, Elvira si riempì gli occhi e i pensieri di quella bruma lattescente che le opacizzava l'anima.
Guardando fuori dalla finestra, aveva l'impressione che stracci di velo uscissero dai cespugli per andarsi ad impigliare fra i rami degli alberi, sporcandone le ultime foglie color ocra, sollecitandole all'inevitabile caduta.
Non aveva voglia precisamente di nulla, o meglio, avrebbe desiderato un diversivo.
Compose un numero al telefono, da tempo non sentiva quella lontana amica. Per tutta risposta le giunse il gracidare di un fax; provò con il numero del fratello: solo segreteria telefonica; accese la radio: un dibattito sindacale.
Decisamente non era giornata per svagarsi, scrollandosi di dosso quel male esistenziale che spesso l'assaliva, quello spleen che vive nel profondo e punge come un ago impietoso.
Non le restava che il computer, suo imperturbabile, algido amico.
Navigò svogliatamente dentro siti d'arte che conosceva a memoria: l'Hermitage, il Louvre, il Prado, Galleria degli Uffizi. Entrò in un portale che prometteva chat, conversazione libera con sconosciuti, virtualità al massimo grado, scambio di parole nell'ombra, protetti dall'anonimato più assoluto.
Un nick, urgeva un nick, o meglio uno pseudonimo dentro cui celare la sua realtà di donna sola, anzianotta, poco propensa alle relazioni sociali.
Digitò un nom de plume mutuato da Ippolito Nievo.
Le piaceva da morire quella capricciosa Pisana, croce e delizia del troppo accondiscendente Carlino, quell'eroina bizzosa, così lontana dalle sue scelte di vita, e - forse anche per questo - così tanto adorata.
Non l'avesse mai fatto!
Un'orda di: "Son pisano anch'io, sono senese, sono aretino, son fiorentino", le gravò addosso, come un campanilistico torrente. I maschi della chat sembravano assatanati di toscanità, alla ricerca di quanto forse già avevano in casa e a letto, da lungo e troppo tempo, ormai.
Uscì, come se abbandonasse un salotto, senza congedarsi cerimoniosamente dagli ospiti, e vi rientrò con una nuova identità: adesso era Eloisa, la letteraria corrispondente epistolare di Abelardo.
Scartò subito, chiudendoli in icona, come vide prontamente che era possibile fare, quanti si presentavano con lo pseudonimo "TiScopo"o "Arrapato", capendo che da costoro non avrebbe ricavato nessuna possibilità di dialogo decente; non tenne in nessuna considerazione quanti le chiedevano se era "trans", se era disposta a conversazioni piccanti, chiuse orecchie e cuore alle sconcezze, e - finalmente - le apparve un archivista, colto, educato, ma pieno di fuoco e di voglia di incontri reali.
Stette al gioco, cambiando il suo "ritratto", ovvero costruendosi una nuova identità.
Rispose con qualche voluta sgrammaticatura alle domande insistenti del partner
Sollecitata ad autodescriversi, compose uno struggente feuilleton, espresso con qualche voluta imperfezione di sintassi, diventando un'apprendista parrucchiera, povera, figlia illegittima, senza istruzione, senza parenti, "chattante" al momento, con il computer di un'amica generosa che sperava di aiutarla a sistemarsi.
In quanto al fisico, si descrisse alta, molto asciutta, un po' piatta, capelli biondi naturali, occhi chiari, aspetto non provocante.
Così docile, timida, impaurita, questa Amalia senza attrattive, finì col provocare la curiosità del topo di biblioteca e col commuovere la sua stessa autrice.
Elvira cominciava a provare un'affezione profonda, materna, per questa creatura nata dal suo fantasioso digitare sulla tastiera.
Nel protrarsi dei dialoghi, che avvennero con maggior intensità, nei pomeriggi successivi, Giuseppe si attaccò - con desiderio di incontrarla sempre più acceso -, a questa scialba ragazza, depressa dalla sfortuna, dolcemente passiva.
Pensava che sarebbe diventato il suo pigmalione, che l'avrebbe rimodellata a suo piacere, che avrebbe ottenuto da lei - lui così inibito e poco avvenente - quello che nessuna donna gli aveva mai saputo e voluto dare.
Cominciò a chiederle l'indirizzo, a offrirle l'invio di doni o danaro.
La ragazza, inventata da Elvira, rifiutò sempre di accettarli, sommessamente, con umiltà.
Decisero un incontro.
Scelsero una piccola città a mezza via tra l'Emilia e la Toscana.
Giuseppe le diede il numero di cellulare, la via in cui si trovava il ristorante, l'orario preciso di partenza e arrivo del treno.
Avrebbe dovuto presentarsi vestita con un tailleur blu ("l'unico decente che posseggo" - aveva digitato Elvira sulla tastiera -, aggiungendo qualche altro scarno particolare sul suo abbigliamento dell'incontro).
Giuseppe avrebbe recato in mano un mazzo di roselline rosse: non era possibile sbagliarsi.
Quella notte Elvira non chiuse occhio.
Che fare?
Rivelare all'archivista l'inganno?
E poi il divertimento, lo svago virtuale che si era creato sarebbe finito e lei avrebbe ritrovato tutto il grigiore del suo tran-tran a sostituire le emozioni di quei pomeriggi al computer, celando sotto Eloisa la sua Amalia inventata.
Che romanzo ne uscirebbe, pensava; che voglia di scrivere del narcisismo, della stupidità degli uomini e dell'ingenuità delle donne.
Chi ti dice che questo Giuseppe non abbia moglie e figli e che sottragga danaro alla sua famiglia e tempo al suo lavoro, "comprando"l'interesse di questa improvvida ragazza, uscita dalle mie fantasticherie?
Salì in treno con poco bagaglio; questo viaggetto era già di per sé una piacevole evasione.
Voleva andare a vedere di persona la faccia delusa dell'adescatore-adescato, solo nel ristorante, in compagnia del suo inutile bouquet.
Ridacchiando, si sentiva piacevolmente cattiva.
Che stesse vendicando, inconsciamente, sue passate sconfitte?
Facciate di case e scampoli di giardini sfrecciavano al suo fianco; li guardava con la coda dell'occhio, troppo presa dal suo rimuginare. Il vetro appannato del finestrino le riportò alla mente la bruma di quella lontana mattinata ottobrina: erano passati mesi dalla sua entrata in chat, ai danni dell'archivista.
Il pianto di un bambino la riscosse; il fumo di sigaretta di un indifferente ai divieti la infastidì; il buio di una galleria le procurò uno spavento lieve, come quello che si prova al cinematografo, sapendo che è solo una finzione.
Arrivata nella piccola città, si fece portare da un taxi nel rinomato ristorante.
Un premuroso cameriere la condusse al tavolo prenotato.
Non si vedeva nessun avventore corredato di un mazzo di rose.
Notò tranquille famigliole.
Due amiche cicalanti all'infinito.
Uno straniero in difficoltà nella scelta delle portate.
Sono venuta fin qua, per niente, si rammaricò.
Giuseppe ha mangiato la foglia; si è pentito, ha cambiato idea.
Così non potrò godermi lo spettacolino della sua delusione, derivata dal mancato appuntamento.
Recandosi alla toilette, vide un uomo solo, seduto in un tavolo d'angolo un po' in ombra.
Calvo, anonimo nella fisionomia, vestito di scuro, si asciugava il sudore dalla fronte con un gran fazzoletto; appoggiato sul tavolo, fra i due piatti vuoti, brillava il rosso fulgido di un mazzo di roselline.
Elvira non fece altri passi, restando a guardare divisa tra lo scontato divertimento e l'imprevista pena.
Fu questione di un attimo.
La porta si aperse piano.
Entrò una giovane magra, con passo esitante…
Giuseppe si alzò in piedi con un balzo che fece quasi cadere la seggiola.
"Amalia, Amalia mia" - sussurrò con voce arrochita dall'emozione, stringendola teneramente al suo petto.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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