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Il giovane sbirro
di Gianni Biondillo, Guanda

Torna Ferraro l'antieroe

Incontrando nuovamente personaggi noti, a cui ci siamo affezionati nel tempo, si ha la sensazione rassicurante di ritrovare un amico. Questo avviene in particolar modo leggendo i romanzi di Gianni Biondillo (nella foto), il quarantenne architetto milanese che fin dai tempi di «Per cosa si uccide» e di «Con la morte nel cuore», ci ha trasportato nel clima particolare suburbano della sua Quarto Oggiaro, una periferia della memoria, rivisitata con la «seria allegria» della sua penna tanto trascinante.
Del resto, non è una novità il rilievo per cui Biondillo nuoti alla grande nel mare degli ossimori, capace com’è di colorare di poesia anche le situazioni che di poetico hanno ben poco, vedi quella degli immigrati o dell’umanità che vive ai margini come molti dei suoi personaggi che ritroviamo nel nuovo romanzo a episodi «Il giovane sbirro» (Guanda, pp.343, euro16), atto a soddisfare anche molte domande inerenti la genesi del suo protagonista, l’ispettore Michele Ferraro, l’antieroe per eccellenza, lo sbirro con le emicranie, la sigaretta facile, il matrimonio fallito, la poca propensione per lo studio al fine di passare di grado o di ottenere la tanto rinviata laurea. Un uomo simpatico, forse e anche proprio per i suoi umanissimi difetti, non sempre in grado di trovare soluzione alle sue indagini, in sintonia coi suoi fallimenti personali.
Questa volta, nel nuovo romanzo, Ferraro ci appare giovane, agli esordi. Suona con gli amici e conosce Francesca. Motivi familiari lo inducono a lasciare il mondo della musica ed entrare in polizia.
Come a dire: uno sbirro per forza. Lo seguiamo nei suoi primi passi di apprendistato nella polizia, giovane sposo e giovane padre che brilla per assenza in casa, troppo assorbito dal suo lavoro, in linea col destino di molti, troppi uomini comuni, quelli che noi pure conosciamo nella vita di tutti i giorni.
Respiriamo con Ferraro, agli esordi, l’aria delle valli alpine, seguendo i suoi casi «gialli», venati di quegli ingredienti grotteschi che Biondillo sa inserire nella normalità con mano felice, creando un mix spesso piacevolmente surreale.
A sottendere l’episodica trama, il «fil rouge» delle sventurate vicende di Kledy, un immigrato albanese che sembra essere misteriosamente sparito, ma che in realtà è incorso nell’insidiosa rete di una giustizia paradossale e umanamente improponibile, in piena antitesi con i principi dell’autore che ci sembra esecrare i perbenismi e il «benpensantismo» in tutte le sue forme e accezioni.
Seguiremo l’ispettore trasferito a Milano sulle volanti, mentre il suo matrimonio si va sfaldando, fino al disfacimento totale, perché Francesca si sente sola ad affrontare i problemi di ogni giorno, persino quelli straordinari di una grave malattia di Giulia, la figlioletta ricoverata d’urgenza all’ospedale, mentre Michele rincorre l’assassino di una prostituta del quartiere.
Una vera galleria di imprevedibili personaggi incornicia gli avvenimenti a cui l’autore sa dosare la giusta quantità di pepe per renderli più godibili. Donne, apparentemente «casa e chiesa» risultano perverse sgualdrine, e prostitute di professione ci sembrano avere cuore e voglia di rispettabilità, in un gioco di specchi volubile, come volubile è la vita, mentre Kledy l’albanese, compare e ricompare sempre più umiliato ed afflitto, fino al consolante epilogo.
Ferraro, stroncato dalla solitudine, ha un momento di cedimento finale, parrebbe persino pensare al suicidio, mentre la sua vita crolla in simmetria con l’acquaio di casa che cede, inondando la stanza. Ma la vita riprende e lo sbirro si rialza.
A questo punto, sarebbe ghettizzante definire Biondillo soltanto un giallista, pur riconoscendogli la capacità di costruire un impianto percorso da sapienti ventate di suspense, con adeguati colpi di scena, perché questo autore sa raccontarci il colore non certo limpido di una città - fra debolezze e nevrosi dei suoi abitanti - spesso venato di grottesco, in un vivido gioco di dialoghi brillanti, come se i suoi personaggi calcassero il palcoscenico della vita, portando in petto un cuore torbido, come torbida e scura è spesso l'umanità.
Grazia Giordani

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 16 Maggio 2007

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