Recensioni e servizi culturali
Il Gatto di Georges Simenon, Adelphi
La scuola dell'odio secondo Simenon Un'atroce bravura
Un fatto è certo che non si resti mai delusi leggendo i romanzi di Simenon. E Il Gatto (pp.165, euro10) che Adelphi ci propone ben tradotto da Marco Bevilacqua, rifulge di una sua crudele bellezza, rientrando in quel duro filone in cui l’autore descrive il fallimento della coppia e le miserie della vecchiaia. Fa da cornice all’algida vicenda l’atmosfera volutamente stagnante, entro cui i due protagonisti - Émile Bouin, settantatré anni, ispettore dei lavori pubblici in pensione e Marguerite Doise, settantun anni -, entrambi vedovi, risposatisi otto anni prima, sono giunti a giurarsi un implacabile odio reciproco non smettendo mai di spiarsi, cercando l’uno nell’altro i segni della reciproca vecchiaia e l’approssimarsi della morte. Questa situazione dura da quando è morto l’amatissimo gatto di Émile che l’uomo sospetta sia stato avvelenato dalla moglie per vendetta, visto che non sopportava la presenza, ai suoi schizzinosi occhi, inopportuna ed ingombrante, dell’animale.
In letteratura, non è il primo esempio di un fatto simile, basterebbe riprendere in mano La Chatte di Colette – pur con le dovute differenze di clima e di scrittura – per ritrovare richiami alla penosa situazione. Ma la vendetta genera vendetta e l’esacerbato marito strappa le penne al pappagallo di Marguerite, provocandone la morte. Ora l’ara troneggia impagliata nel salotto. Da quel momento i due non si rivolgono più la parola, comunicando solo con lapidari, perfidi bigliettini. Nel timore che uno cerchi di avvelenare l’altro, si recano a fare la spesa ciascuno per conto proprio, conservano le provviste in credenze chiuse a chiave e si preparano pasti separati. L’odio è diventato un’abitudine cui non sanno rinunciare e ciascuno si adopera per trovare il modo di tormentare l’altro. Al minimalismo del linguaggio prosciugato, lontano da qualsiasi abbandono lirico, fa contrasto una costruzione narrativa tortuosa e molto elaborata, densa di flash back che ci raccontano la vita precedente di Marguerite, di estrazione sociale di gran lunga superiore a quella del marito, vedova di un raffinato musicista e l’esistenza precedente di Émile, da manovale diventato ispettore ai lavori pubblici, ora in pensione e pieno di rimpianto per Angèle, la sua prima moglie, allegra, carnale, piena di vita, in contrasto con l’esangue Marguerite che non condividerà mai con lui i piaceri del letto.
Avrebbero potuto essere due solitudini – pur nelle differenze sociali – pronte a darsi reciproco conforto. E questo, forse, era stato il proposito iniziale di entrambi – ma non ha tardato a crearsi un velenoso livore tra i coniugi che sin dall’incipit cogliamo nella loro quotidianità, soffocati dall’atmosfera asfissiante che aleggia loro intorno come una maledizione. Émile compie anche un tentativo di evasione dalla schiacciante routine, rifugiandosi tra le braccia della donativa Nelly, pronta, come in tempi passati, a offrirgli ogni genere di conforto. Ma l’esperimento fallisce, perché l’odio è diventato motivo di esistere, un sentimento vitale a cui non sanno rinunciare, perché è per entrambi l’unica maniera di esorcizzare la morte.
Come sempre, l’epilogo lo lasciamo ai lettori, aggiungendo solo la notizia che il bellissimo romanzo ha conosciuto un adattamento cinematografico nel 1971, girato da Pierre Granier-Deferre con Simone Signoret e Jean Gabin nei due ruoli principali.
Grazia Giordani
Pubblicato nei consueti tre quotidiani lunedì 5 dicembre 2011
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 18 Dicembre 2011