Recensioni e servizi culturali
Il porto delle nebbie di Pierre Mc Orlan, Adelphi
Le nebbie immortali
In realtà, non incontriamo porti veri e propri nel romanzo di Pierre Mc Orlan Il porto delle nebbie (Titolo originale Le quai del brumes, Adelphi, pp.143, euro 16, traduzione di Cristina Földes, con un saggio di Guido Ceronetti e una postfazione di Francis Lacassin), perché la trama scritta si svolge a Montmartre e il porto – quello di Le Havre - è un’arbitraria, quanto indovinata scelta di Jaques Prévert e Marcel Carné, rispettivamente sceneggiatore e regista di quel capolavoro di film, entrato nella leggenda, con Jean Gabin e Michèle Morgan protagonisti. Sebbene infedele, in alcuni punti rispetto al plot narrativo del romanzo, il film piacque comunque tanto a Mc Orlan da indurlo a scrivere sul ‹‹Figaro››: ‹‹Quando ho letto il copione del Quai des brumes, ho scritto a Carné e a Prévert per dir loro quanto fossi rimasto colpito dall’adattamento cinematografico del mio romanzo. Il libro riflette la bohème, a volte squallida e quasi sempre malinconica, degli anni intorno al 1903. Per essere allegri bisogna avere la pancia piena. C’è la bohème con la pancia vuota e la bohème con la pancia piena. Quella di cui parla il romanzo è la prima. L’atmosfera dell’epoca ricostruita in studio non aiuterebbe per niente la comprensione del dramma. Carné e Prévert hanno giustamente spostato l’azione a Le Havre, il che chiarisce il titolo puramente simbolico dell’opera››.
Acutamente nota Guido Ceronetti, in prefazione, quai sta per molo, imbarcadero, banchina, ma sarebbe più aderente al testo tradurlo “crocevia”, perché ci troviamo nel milieu di uno struggente incrocio di cinque solitudini, cinque destini che si sfiorano senza potersi veramente incontrare. Il locale che li accoglie in una tempestosa notte, tormentata dalla neve, è il Lapin Agile (divenuto in seguito meta di turismo organizzato), una bettola in pieno stile bohème che dà occasionale ricovero a un pittore tedesco che non sopporta più di vivere, afflitto da un cupio dissolvi a causa delle sue premonizioni di morte (‹‹Sarei capace di vedere un crimine in una rosa››); una specie di entraîneuse che cambia ogni sera professione e personalità a seconda di chi incontra; un soldato che medita di disertare; un macellaio losco che non uccide solo animali, inseguito da alcuni banditi che- nel fragore di rivoltellate – assediano il locale finché albeggia. E, in fine, uno sradicato anticonformista, in parte alter ego dell’autore stesso, ‹‹metà osservatore, metà maestro di cerimonie – come rileva in postfazione Francis Lacassin – Jean Rabe: il solito personaggio marcolaniano, colto e sfortunato, che ,nel ruolo effimero di usciere, si fa da parte dopo aver introdotto quelle cinque traiettorie tutte destinate all’infelicità››. Al Lapin Rouge i cinque si confessano in disperati soliloqui, annaffiati dalle pessime bevute. Solo uno di loro si salverà, solo Nelly,perché nell’ottica dell’autore , ci stiamo avviando all’ascesa sociale della Donna, sebbene qui rappresentata da una semplice, ma moderna entraîneuse ‹‹al tempo stesso candida e furba››.
Il romanzo e il conseguente film, fecero enorme scalpore, scandalizzando i moralisti e i cosiddetti ben pensanti, che erano rimasti sbalorditi dall’opera di questo premonitore di Céline, assai lodato dall’autore del Voyage che di lui addirittura scrisse nel 1938 che Mc Orlan: ‹‹Aveva visto tutto, capito tutto, inventato tutto››.
Giornalista satirico, caricaturista ambulante, vignettista porno, paroliere, sceneggiatore di protofumetti, l’estroso autore, agli inizi della sua strana carriera, conduceva una vita simile a quella del protagonista del suo romanzo, divenuto addirittura segretario di una strana femme de lettres che lo porterà con sé da Napoli a Palermo. Durante la grande guerra uscirà con onore, meritandosi la Croix de guerre. Sfugge all’accusa di collaborazionista, tanto che nel dopoguerra lo eleggono membro dell’Académie Goncourt e ottiene addirittura la Légion d’honneur. Chiude i suoi giorni mortali nel 1970.
Il porto delle nebbie, poco capito e addirittura temuto dalla critica contemporanea all’autore, sia nella versione cartacea che in quella filmica, è un capolavoro.
‹‹Il libro è una rapsodia di schegge – sottolinea Ceronetti -, di frammenti dove emerge la spaventosa durezza della vita dei primi decenni del secolo (il suo paesaggio orrendo di miserie sociali e di crimini all’arma bianca) senza il respiro di una passione vera, e dell’impossibilità, per effetto dello straniamento dell’autore, di una partecipazione emotiva da parte del lettore››. Nel film c’è più eros reale, Rabe e Nelly sono una coppia di veri amanti, ma entrambe le versioni sono indimenticabili e ci lasciano pieni di rimpianti nei confronti dell’odierna letteratura e produzione filmica.
Riavremo ancora, pur in contesti sociali diversi, simili struggenti capolavori?
Grazia Giordani
Pubblicato giovedì 3 maggio 1912 nei consueti quotidiani
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 30 Maggio 2012