Recensioni e servizi culturali
Cacciatori di notte di Filippo Tuena, Longanesi
LICANTROPIA, DELITTI, MALEDIZIONI,
FATTURE
E' opinione comune - nel campo della critica -, che il genere letterario
del noir sia di esclusiva appartenenza al mondo anglosassone. Nessuno infatti
si sentirebbe di negare la grande capacità e il valore di autori inglesi
o americani, partendo da Poe, ineguagliato maestro del mistero, per giungere
agli odierni Grisham, Kennedy, P. D. James, Turow o alla notissima Highsmith,
solo per citare alcuni nomi nell'immensa foresta degli autori di thriller.
Eppure, in terra latina - anche con gli adattamenti mediterranei, di casa nostra
- non mancano penne capaci di coinvolgere il lettore con trame intessute di
inquietudine e paura. Da noi scompare lo scenario dei grandi studi legali, non
vediamo le immagini di figure femminili ultrasexy, plasmate in palestra o in
megalattiche piscine, scompaiono i bicchieri sempre colmi di whisky e il clima
miliardario che si respira soprattutto nel romanzo odierno americano. La penna
di Filippo Tuena, con il suo Cacciatori di notte - uscito per i tipi
della Longanesi -, ci porta in una cittadina di villeggiatura a sud di Roma,
prima negli anni Sessanta e poi trent'anni dopo e riesce a regalarci un romanzo
originale, proprio ricreando l'atmosfera superstiziosa in cui vivrebbe il licantropo,
quel lupo mannaro che tanto ha acceso la fantasia popolare. La capacità
dell'autore, nato a Roma nel '53, che ha alle spalle libri insigniti di premi
(nel '91 il Bagutta Opera Prima con Lo sguardo della paura, e nel '94
il Premio Selezione Isola d'Elba, con Il volo dell'occasione) è
quella di creare un mix di fantastico e verosimile, su piani temporali
spostati, che per il loro "realismo magico", piacerebbe a Garcia Marquez,
autore Degli amori e di altri demoni.
Cacciatori di notte, basato su racconti d'infanzia, su storie terrificanti,
care alla tradizione popolare del mistero, porta in sé anche il grande
tema della memoria, di quel passato racchiuso negli "oggetti d'affezione,
nei rimasugli di vita cui ci si crede legati e che, inevitabilmente, col passare
del tempo - dirà l'autore -, si accantonano in luoghi sempre più
reconditi, per un inconscio desiderio di annientamento, sino a quando un imprevisto
accidente non riporta in primo piano l'esistenza".
Tuena incontra in treno un "cacciatore di licantropi" che gli narra
la storia di inspiegabili fatti di sangue avvenuti nella piccola città
di villeggiatura laziale, in cui l'autore stesso si sta recando per prendere
possesso di un'eredità lasciatagli dalla vecchia zia Consuelo. Il cacciatore,
chiamato a guarire il lupo mannaro che vive nella zona, ritenuto colpevole degli
omicidi, racconta come si è affiancato al maresciallo dei carabinieri
per dargli manforte nelle indagini. I sospetti si concentrano su tre individui:
un seduttore di bassa lega, che gestisce un chiosco di bibite, un artista deforme
e misterioso, specialista di anamorfòsi, ovvero "pitture
quasi caricaturali, che sviluppano la prospettiva in maniera parossistica, stravolgendo
completamente, nella visione corretta e ortogonale il soggetto dipinto",
e un venditore ambulante.
Un nuovo crimine riempie di paura gli abitanti del luogo e fa sorgere il dubbio
che l'assassino si celi dietro il vestito di comodo del licantropo.
Solo la notte di caccia, descritta con maestria sinistra, svelerà il
mistero.
"Poi venne un brivido - scrive Tuena -, un vento freddo e tutti ci fermammo.
Trattenemmo il respiro. L'odore di marcio ci avvolse. E il lupo mannaro lo vedemmo
chiaramente, sull'altura distante un chilometro, mentre la percorreva lungo
la dorsale. Si fermò e lanciò il suo lamento. [...] L'espressione
del muso era tale da spaventare. Gli occhi di un cangiante giallo e rosso, maligni
e sottili. Le fauci spalancate e bavose, mostravano denti corti e aguzzi, fortissimi
dunque..."
Non faremmo un buon servizio ai lettori se rivelassimo chi si nasconde dentro
le sembianze del licantropo, ci limitiamo ad assicurare che non è il
maggior indiziato il pittore di "possibilità dell'esistenza",
quello che dipinge la gente prevedendo il suo possibile aspetto futuro. E nell'insistere
sul tema dell' "anamorfòsi", Tuena rivela anche la sua cultura
di saggista e storico dell'arte, sottolineando in proposito: " Un esempio
che forse molti conoscono, il più noto, credo, è il teschio che
appare nel dipinto Gli ambasciatori di Hans Holbein nella National Gallery
di Londra".
A trent'anni di distanza, il nostro autore avrà modo di raffrontare la
veridicità del racconto del cacciatore di licantropi. Quanto corrisponde
al vero e quanto è frutto di fantasia? Ci accorgeremo più che
mai come la verità possa essere "una, nessuna, e centomila"
e come alla defunta zia Consuelo, la fantasia popolare sia pronta ad attribuire
"infinite vite e quindi nessuna vera vita". "Così presto
- si chiede Tuena - ci si trova in balìa delle vite immaginate, delle
probabilità delle fantasie? Così lieve è il segno che lasciamo,
che bastano poche settimane a cancellarlo, a sovrapporvi altre esistenze , altre
verità. Come siamo lievi, vacui, inerti. Eppure che grave peso sopportiamo".
Il romanzo si chiude con un epilogo di sorpresa, anche se in sintonia con l'atmosfera
"magica" che l'autore ha saputo creare.
Siamo di fronte a un noir di marchio "fatato-esistenzialista",
tenuto conto dei grandi quesiti sulla vita che l'autore si pone, un genere -
questo - che forse ancora mancava nel già vasto panorama del pianeta
libro.
Grazia Giordani