Recensioni e servizi culturali
Colette. Vita di una donna di Julia Kristeva, Donzelli
COLETTE PSICOANALIZZATA
Se non fosse impossibile, ci piacerebbe vedere le maliziose reazioni
di Colette, psicoanalizzata, dalla sapiente penna della linguista e semiologa
Julia Kristeva, che – confortata dalle sue doti di studiosa di psicoanalisi
-, fa idealmente sdraiare la nostra geniale scostumata sul lettino di Freud
(lei che era abituata ad abitare ben altri letti!) nel suo laborioso saggio
Colette.Vita di una donna, portato per noi in Italia da Donzelli, nell’accurata
traduzione di Monica Guerra.
Va di fatto che certe cose si possono scrivere solo quando il soggetto analizzato
ha chiuso gli occhi per sempre, poiché propendiamo fortemente per credere
che l’eccezionale autrice di trasgressivi romanzi, icona della libertà
erotica femminile, non avrebbe gradito una vivisezione così invasiva
della sua scioccante personalità.
Con penna sapiente, la Kristeva che già si è occupata di saggi
su Hanna Harendt e Melanie Klein, presa com’è dall’intento
di sottolineare i valori del genio femminile, crea un polifonico affresco –
collocato in oltre quattrocento pagine – in cui si intrecciano meticolose
notizie biografiche, valutazione critica di tutto il corpus della produzione
letteraria colettiana e soprattutto indagine psicologica della composita personalità
di una scrittrice tanto discussa e tanto amata, così fuori dai canoni,
da aver meritato – prima donna nella storia della Repubblica francese
– i funerali di Stato.
Innanzi tutto, la saggista sottolinea la novità del linguaggio di Colette,
il suo «alfabeto solare», il suo «possente arabesco di carne,
una cifra di membra mescolate, monogramma simbolico dell’Inesorabile».
E altrimenti non avrebbe potuto essere la scrittura di chi ha sempre cercato
la «compenetrazione tra la lingua e il mondo, tra lo stile e la carne»,
dato che improntata a carnalità – nel senso più spinto del
termine – non è solo la parola scritta di questa autrice «ermafrodita
mentale» aliena da ipocrisie, ma tutta la sua vita, aperta ad ogni tipo
di esperienze etero e bi-sessuali.
«Con un vigoroso contrappunto, Colette, impone una parola femminile disinibita
che si compiace nel formulare i propri piaceri, senza tuttavia negarne le angosce».
Sarà così che il suo «cantico del piacere femminile»
può prendersi il lusso di dominare la letteratura della prima metà
del Novecento. Eppure, Colette non è femminista nel senso classico del
termine, addirittura si dissocia dal femminismo convenzionale, e – pur
frequentando gli omosessuali – concepisce una rivoluzione dei costumi
tutta sua e molto personale. La penna di Sidonie-Gabrielle Colette, nata in
Borgogna nel 1873 è dunque in grado di mettere nero su bianco la voce
di una vera grande rivoluzione che sotto l’apparenza di facili risultati
di cassetta, porta avanti un’altra immagine dell’erotismo femminile,
apparendo alla stessa saggista, più monella che perversa, come già
era stata definita da Apollinaire. Addirittura la Kristeva, azzarda l’ipotesi
psicoanalitica di una madre-versione in luogo di perversione, sottolineando
l’afflato edipico del bivalente sentimento madre-figlia che ha legato
Colette a Sido, la madre mitica, dura e amorevole, sfuggente e onnipresente
nella vita dell’autrice che tanto saprà condizionare anche nella
produzione letteraria. L’afflato edipico si farà ancora più
contorto ed inquietante quando non legherà solo la madre alla figlia,
ma anche Colette al figliastro Bertrand e prima ancora la scrittrice alla figura
materna di Missy, la nobile, divenuta sua amante, troppo prodigale, che si suiciderà,
economicamente rovinata, dopo il suo abbandono. Seguiamo nel saggio le stazioni
salienti di tutto un annoso viaggio: i tre matrimoni di Colette, il primo con
Willy (Henry Gauthier-Villars), suo attempato mentore e corruttore con cui scriverà
in binomio il celebre ciclo delle Claudine; il secondo con Henry de Jouvenelle,
importante politico, padre di Bertrand, il figliastro, divenuto suo amante;
il terzo con l’ebreo Maurice Goudeket, il suo ultimo amore, il suo «miglior
amico» che, malata e inferma, l’accudì fino alla fine dei
suoi giorni. Impossibile concentrare nei brevi spazi di una recensione, il fiume
di parole della saggista che ha esaminato l’affascinante originalità
di una donna non solo grande scrittrice, ma anche spregiudicata senza limiti,
pronta a ballare nuda, in scena, in un’epoca in cui il comune senso del
pudore era ancora molto rigoroso. Nell’ottica della Kristeva, l’autrice
delle Claudine e de Il grano in erba sublima la perversione e i suoi egoismi
di figlia (mancherà al funerale della madre) e la sua famosa “dismaternità”,
mutandole in autoanalisi. Non entriamo nel merito del piano morale e tanto meno
di quello psicoanalitico, accodandoci ai francesi che l’hanno saputa comunque
amare e che nel 1954, sono corsi a migliaia al suo funerale, inteneriti dalla
fine di una scrittrice e donna innovatrice e sui generis. Si sa che gli artisti
sono, nietzscheanamente, al di sopra del bene e del male.
Grazia Giordani