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Il mondo conosciuto di Edward P.Jones, Bompiani

SCHIAVI E PADRONI IN UN’ IMMAGINARIA CONTEA DELLAVIRGINIA
Se un romanzo fiume di oltre cinquecento pagine si fa leggere in pochi giorni, non può che essere un’opera di qualità. Il mondo conosciuto, di Edward P.Jones, portato in Italia dalla Bompiani, nella bella traduzione di Andrea Silvestri (pp.507, € 18,50) non ha certo faticato a guadagnare il Pulitzer Prize, e il prestigioso premio della critica americana, il National Book Critics Circe Award .
Teatro dell’azione è un’immaginaria contea della Virginia vent’anni prima della guerra di Secessione. L’epoca è circa quella del famosissimo Via col vento, ma la prospettiva è assai diversa perché Jones è un autore di colore che sa sfidare le banalità e quanto di convenzionale abbiamo spesso letto sullo schiavismo. Non ci sono qui seduttrici in crinolina, né svenevolezze salottiere. L’atmosfera è più cruda e primitiva.
L’intreccio è denso, fitto di flash back, un vero labirinto di destini che si intrecciano e aggrovigliano e sgrovigliano attorno alla figura di Henry Towsend, prototipo delle contraddizioni e dei paradossi di cui lo scrittore ci metterà a parte. Nato schiavo, dotato di ingegnosa intraprendenza, affrancato adolescente, dal padre Augustus (che da molti anni libero, subirà il sopruso di esser rivenduto e ucciso) avido di possesso, riuscirà a diventare proprietario di una ricca piantagione e di oltre trenta schiavi. Dunque, Henry è un nero che schiavizza i suoi simili, quasi fosse dimentico del suo passato di sofferenze. Augustus e Mildred, i genitori, lo allontanano, indignati per questa sua ambiguità. Le figure che gli fanno corona sono tutti ritratti di rara finezza, dalla moglie Caledonia che si risposerà, in seconde nozze, con Louis, figliastro dell’antico padrone di Henry; a Moses, il sorvegliante della piantagione, con cui la giovane vedova avrà un (come dire?) cedimento amoroso, prima del secondo matrimonio. E come è bravo qui l’autore a descrivere la capacità seduttiva dello schiavo che inventa storie lusinghiere su Henry per ammaliare la vedova in maniera insinuante, con la tecnica di un incantatore di serpenti. E un fatto inusitato prende così il colore della naturalezza.
Singolare il ritratto di Fern, maestra di Henry, Caledonia e di tutti i personaggi di estrazione sociale più elevata del romanzo, divenuta poi anche voce storica della narrazione quando Frazier, un giornalista autore di pamphlet sullo schiavismo americano, la contatterà per conoscere meglio la figura del defunto ed enigmatico Henry. Meravigliato dall’uso dei negri affrancati di possedere schiavi a loro volta, il pamphlettista non esiterà ad esprimere un suo severo giudizio:”Non so, sarebbe come se possedessi la mia stessa famiglia, i membri della mia famiglia”. Di rimando Fern: “Be’, signor Frazier, non è come possedere i membri della propria famiglia. Non è affatto la stessa cosa. (…) Ciascuno di noi fa solo quello che la legge e Dio lo autorizza a fare. Nessuno di coloro che credono nel Signore e nella legge fa niente di diverso. Lei forse sì, signor Frazier? Lei forse fa più di quanto sia permesso da Dio e dalla legge?”
Schiavi e padroni nella pagina hanno profili così ben delineati che è come se li vedessimo proiettati in un film (e la trama si presterebbe alla grande). Va tenuta d’occhio la figura di Alice, la sventurata giovane schiava che aveva perduto il senno per gli oltraggi subiti, sì questa ragazza merita uno sguardo speciale, perché nell’epilogo della narrazione sarà proprio lei ad offrirci un inaspettato colpo di scena.
Dire di più in merito significherebbe sciupare la sorpresa al lettore, commettendo una scortesia nei suoi confronti.
L’affresco, intessuto di una forte complessità morale, dominato dal sogno della libertà, è brulicante di vita, di passioni, di violenza, di umana debolezza, di dolore e di vendetta, atto a ridarci un’immagine del profondo Sud degli Stati Uniti, rivisitato in un’accorata chiave di quel realismo magico tanto caro a Gabriel Garcia Marquez , forse qui più crudo ed istintivo. Chi muore spesso continua ad esserci e a “vedere” la vita trascorsa, in un clima metafisico molto suggestivo.
Impossibile riassumere una trama così dilatata piena di chiasmi e di richiami, un puzzle di cui solo alla fine riusciamo a mettere tutte le tessere nella loro legittima sede, guidati dall’ironico talento di questo provocatorio autore.

Grazia Giordani

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