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In memoria di Fulvio Tomizza

Quando un "signore della penna" come Fulvio Tomizza, istriano di nascita e triestino d'adozione, parte per l'estremo viaggio senza ritorno, resta un vuoto difficile da colmare, soprattutto nel cuore di chi l'ha considerato un amico fraterno - come chi sta scrivendo per voi su queste colonne - recensendo dall'86 a oggi, molti dei suoi romanzi nelle pagine del "Resto del Carlino", dell'"Arena" e della "Repubblica Veneta", ricevendone in cambio lettere piene d'affetto e amichevole riconoscenza.
Venti giorni prima di lasciare la sua amata Laura, la figlia Franca e la nipotina Elisabetta, lo scrittore di frontiera, vincitore dei massimi premi letterari (Strega e Viareggio, e quattro volte finalista al Campiello), a cui era stato conferito a Vienna il Premio di Stato Austriaco per la letteratura europea (e nessuno più di lui avrebbe potuto meritarlo, vista la vena mitteleuropea della sua scrittura e della sua visione della vita), ha telefonato a Badia, a casa nostra, per dirci, con un filo di voce, che stava molto male e che il suo fegato era colpito da un male estremo. Eppure non sembrava disperato e le sue parole erano ancora di gratitudine per i giudizi critici espressi sull'"Arena", inerenti la sua ultima silloge di racconti, Nel chiaro della notte, dove l'autore, in chiave onirica riporta tutti i temi, i luoghi, i personaggi, le ossessioni della sua vita, purificate e nel contempo enfatizzate dalla dimensione del sogno. Soprattutto degno di rilievo il primo racconto, quasi una favola felliniana che avrebbe potuto regalare intriganti spunti al grande regista riminese.
Tomizza è vissuto in disparte, schivo, sobrio, innamorato della sua nativa Istria e in particolare di Materada che aveva dato il titolo al suo primo romanzo-rivelazione; nemico del frastuono della grancassa, delle gomitate per arrivare a tutti i costi, aveva dato il meglio di sé nei romanzi di "frontiera", quelli che gli avevano permesso di intonare il canto malinconico della sua gente martoriata; il fado della sua anima per metà slava e per metà italiana; la voce sussurrata di chi sta con i "figli di un Dio minore", senza schiamazzo, senza faziosità, forte di una umanità giusta e di una penna che incide.
A noi piace ricordarlo in Accademia dei Concordi, mentre presenta il suo Rapporti colpevoli affiancato al nostro Hena, in un magico pomeriggio letterario; a noi piace ricordarlo seduto sul divano del salotto di casa nostra a Badia, mentre ci anticipa la trama dell'Abate Roys, in compagnia della sua dolce Laura, pieno di aneddoti sul suo soggiorno istriano, sulle sue estati da Cincinnato, nel suo uliveto, piantato con le sue mani nostalgiche della purezza di una vita agreste; a noi piace ricordarlo nell'ultima cena rodigina in cui ci anticipava le favole oniriche della sua ultima fatica letteraria; a noi piace ritrovarlo nella sobria eleganza della sua pagina, nel messaggio struggente della sua scrittura.

Grazia Giordani

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