Recensioni e servizi culturali
L’amore paziente di Anne Tyler, Guanda
VITA DI “GENTE COMUNE”A BALTIMORA
Già il grande Raymond Carver è stato impareggiabile cantore della
“gente comune”, quella che conduce una vita piccola, fatta di personaggi
minimi (ricordate anche «Coppie» di Updike, già recensito
su queste colonne?) e proprio in linea con questa scuola “minimalista”
si distingue Anne Tyler, in questi giorni in libreria, con il suo «L’amore
paziente» (Celestial Navigation), nella briosa traduzione di
Laura Pignatti, per i tipi di Guanda, editore – per noi in Italia –
dell’opera omnia dell’autrice da «Il turista involontario»
a «Quando eravamo grandi», non dimenticando «Per puro caso»,
romanzo di grande successo.
Teatro dell’azione è Baltimora. Qui vive il trentottenne Jeremy
Pauling, “inzitellito” dentro un campionario di nevrosi da manuale,
che vanno dall’agorafobia, alla paura della gente, al terrore del telefono,
rendendolo incapace di svolgere una vita autonoma, soffocato da una madre chioccia
che gli ha tolto il respiro. Sempre vissuto all’ombra di questa onnipresente
figura, non esce mai di casa, e se lo fa, non può allontanarsi oltre
il proprio isolato. Passa i suoi monotoni giorni chiuso nella nicchia protettiva
della sua stanza, artefice di collages e strampalate sculture, nate dall’assemblaggio
degli oggetti più disparati.
Quando muore la madre, il contraccolpo per Jeremy è insostenibile. Ora
tocca a lui gestire la piccola pensione, con tutti gli oneri e le noie che questa
attività comporta. Mirabili ci appaiono le pagine abitate dai coinquilini
della casa e soprattutto l’atmosfera che la scrittrice riesce a creare,
con esiti di un mix di figure “svitate” che compiono però
azioni normali. Questo clima, a volte, lo abbiamo respirato spesso anche in
certi film di Almodovar e in molte pagine di Cunningham.
Quando la sua vita parrebbe piombata ormai nella catastrofe, arriva nella pensione
Mary – scappata dal marito – in compagnia di un amante e corredata
di figlioletta.
L’innamoramento di Jeremy è fulmineo e totalizzante (la penna acuta
della Tyler non ci risparmia anche momenti di un umorismo solleticante).
Abbandonata dall’amante, Mary si lascia coinvolgere dalla passione dello
scapolo “in love” con cui non può convolare a giuste nozze,
perché il marito non le concede il divorzio; quindi i nostri fingono
di essere regolarmente sposati e di conseguenza mettono al mondo cinque pargoli,
uno dopo l’altro, a breve distanza.
L’esistenza diventa dolce e i pensionanti sono una grande famiglia per
questi “sposi” fuori dal comune e per la loro figliolanza.
Le cose fin qui sarebbero andate fin troppo bene e il romanzo si sarebbe chiuso
con un consolante happy end, ma – a nostro avviso – a questo punto
la scrittrice deborda, ovvero forza gli avvenimenti, abbandonandosi a una scrittura
sopra le righe, quando prosegue descrivendo l’ottenuto divorzio di Mary
e il conseguente non-matrimonio con Jeremy, travolto e fuorviato dalla passione
per la sua attività di scultore.
Delusa, la nostra protagonista dagli abbandoni facili, pur amandolo moltissimo
(e qui soprattutto sta l’incomprensibile incongruenza!), lascia il quasi
marito e si rifugia con i figli in una baracca senza il minimo di comfort.
Jeremy precipita nell’abulia più disperata, pur confortato dalla
giovinezza di Olivia, una pensionante “immagata” dall’artista,
finché – superando le sue nevrosi – va a trovare la fuggitiva
e i suoi bambini, in quella squallida collocazione. Ma la tanto sperata riconciliazione
non avviene. Contro ogni logica, Mary non torna a casa, restando nel disagio
più assoluto e soprattutto costringendo i figli sofferenti a quella vita
grama.
Jeremy, di conseguenza, più che vivere vegeterà, in compagnia
di una vecchia pensionante che, invano, cerca di scuoterlo e soccorrerlo. «Lo
allontano dal suo studio – dice – dalle sue grandi sculture alte
e meravigliose, e lo aiuto a infilare la giacca e gli offro il braccio per appoggiarsi.
Andiamo molto piano. Non è abituato a camminare tanto. Ha la tendenza
a sussurrare anziché parlare a voce alta…»
Insomma, ormai il protagonista è un “cadavere vivente”.
Grazia Giordani