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La gloria di mio padre di Marcel Pagnol, Neri Pozza
MALIZIOSO CANDORE NELLA STORIA DI UN'INFANZIA
Lascia in bocca il sapore frizzante di un vinello vivace che vellica il palato
con le sue bollicine, la lettura del romanzo di Marcel Pagnol - La gloria
di mio padre - che l'editore Neri Pozza pubblica in Italia, tradotto e curato
da Marco Cavalli, con splendida postfazione. Originariamente uscito in Francia
nel 1957, fa parte di un'opera autobiografica suddivisa in quattro volumi: Le
Chateau de ma mère, Le Temps des secrets e Le temps des
amours, pubblicato - quest'ultimo - postumo, nel 1977, tre anni dopo la
morte dell'autore, avvenuta a Parigi.
La storia narrata comprende una arco temporale dell'infanzia di Pagnol - nato
ad Aubagne nel 1895 -, figlio di un maestro di scuola e di una sartina, e culmina
in un'avventura di caccia avvenuto durante una vacanza estiva nelle colline
della Provenza. Il fatto porge l'estro all'autore per creare un clima di graduale
e crescente celebrazione delle qualità umane ed inventive del padre,
Joseph.
"Mio padre, che si chiamava Joseph - dirà introducendolo nella descrizione
fisica - era all'epoca un giovanotto bruno, di statura modesta senza essere
piccolo. Aveva un naso ragguardevole, sebbene perfettamente diritto e fortunatamente
reso meno appariscente alle due estremità dai baffi e dagli occhiali,
le cui lenti ovali erano cerchiate da un sottile filo d'acciaio. La sua voce
era profonda e gradevole, e i suoi capelli, di un nero venato d'azzurro, erano
naturalmente ondulati nei giorni di pioggia".
Abbiamo la sensazione fisica di vederlo questo Pagnol padre, simpatico senza
essere un'aquila per intelligenza particolare, un borghese "bonario, faceto,
operoso - come nota acutamente Cavalli - una di quelle persone rassegnate che
hanno ormai superato anche la rassegnazione, e che pertanto non sono sfiorate
dall'amarezza di una vita incompiuta o dalla delusione di un'ambizione irrealizzata.
La sua assennata umanità, pur germogliando in un clima di valori spirituali
tutto sommato mediocri, se da una parte ha forse i limiti di non conoscere la
passione totale, esclusiva, divorante, si avvantaggia dall'altra escludendo
da sé l'esagerazione, la ricercatezza, la volontà di eccezione".
L'autore ci avverte - fin dalle prime righe della prefazione - che in questo
suo romanzo non parlerà di se stesso, ma del bambino che ormai non è
più. Il lettore accorto si accorgerà subito della finzione, o
meglio, dell'amabile artificio letterario, tanto più congeniale a uno
scrittore con un così ricco passato teatrale: è stato drammaturgo
e regista cinematografico. Nella sua ricca filmografia vanno ricordati i film
degli anni Trenta: Cesar, La vita trionfa, La moglie del fornaio,
e negli anni Cinquanta: Topaze e Manon delle sorgenti.
Il "tempo ritrovato", nell'ottica di Pagnol, più che una allure
proustiana, acquista una valenza propria a Daudet, in linea anche con il nostro
Fellini. Sono questi dei magnifici bugiardi, ed è proprio dalla loro
inventiva incline alla menzogna (bugia letteraria, sarebbe bene dire) che esce
la loro opera migliore.
Ritornato bambino, l'autore ci racconta, con malizioso candore, le gioie minute,
le pascoliane myricae, ricreando un clima domestico sereno, in cui spicca la
figura del padre, pronto a sopperire - con le sue simpatiche trovate - all'
economia misurata della tranquilla famigliola. Mirabili le pagine in cui il
padre acquista mobili vecchi da un rigattiere per arredare una casetta in campagna
- pomposamente ribattezzata "villa" - in cui i Pagnol, insieme ai
cognati, passeranno la già citata indimenticabile vacanza nel corso della
quale avverrà l'avventura di caccia. Altrettanto degne di letterario
rilievo le pagine in cui l'autore rivive lo sgomento provato, trovandosi solo
nella collina provenzale, disubbidiente seguace dei cacciatori. Pagine - queste
- in cui riesce a ricreare un clima fiabesco, incantato, descrivendoci una Provenza
filtrata dalla sua fantasia. Ma è la fantasia di allora, di Marcel bambino,
oppure quella attuale di Pagnol scrittore? Il romanzo acquista valenza soprattutto
se letto in questa ottica di continuo rimando tra il vero e il verosimigliante,
tra il realmente accaduto e il come avrebbe potuto essere.
Altre figure - oltre a quella dominante del padre - si muovono e parlano con
spontaneità nella trama del romanzo. Incontriamo una madre semplice,
giovane e graziosa, sempre preoccupata del benessere dei suoi familiari, non
certo un'intellettuale, dotata di un fascino gozzaniano; una zia altrettanto
carina, uno zio socialmente più "su" dei Pagnol, sempre un
po' in competizione con il padre dell'autore.
Vaporoso, costellato da descrizioni di vita negli interni e en plein air,
come nelle tele degli impressionisti, il libro ci porta in una Provenza cara
a Giono e a Daudet, cullati da un ritmo consolante come una buona musica gentile,
quasi suonata in sordina, senza colpi di grancassa improvvisi che avrebbero
offeso il nostro orecchio, accarezzato da questa melodia del buon tempo passato.
Grazia Giordani