Recensioni e servizi culturali
La legge del fiume di Colum Mc Cann, Il Saggiatore
ALLA RICERCA DELLA MADRE TRA IMMAGINAZIONE E MEMORIA
Andiamo sempre più persuadendoci che si debba respirare un'aria speciale
sotto il cielo d'Irlanda. Qualcosa di letterariamente magico deve vibrare in
quella verde terra, se là hanno visto la luce geni della penna quali
O. Wilde, G.B.Shaw e J.Joyce, e soprattutto se dalle parti di Dublino continuano
a nascere scrittori originali e capaci di imprimere un marchio indelebile alla
storia della letteratura, quali Frank Mc Court - che con il suo Le ceneri
di Angela ha addirittura vinto il Premio Pulitzer - e ora Colum Mc Cann
che - con La legge del fiume (titolo originale Songdogs) - ha guadagnato
l'Hennessey Award. A portarci la sua opera in Italia è il Saggiatore
nella bella traduzione di Monica Pavani.
Considerato dalla critica uno dei talenti più brillanti dell'odierna
narrativa in lingua inglese, il trentacinquenne Mc Cann in questo suo romanzo
non ci descrive solo il tormentato rapporto di odio-amore che unisce e divide
un padre e un figlio, non ci fa sentire solo il peso di una misteriosa assenza
- quella della madre scomparsa, quasi dileguatasi nel nulla -, ma ci fa assaporare
anche i contenuti nascosti fra le righe del dialogo, impercettibili zone d'ombra,
più eloquenti della luce.
Per cinque anni Conor Lyons, il protagonista, cerca inutilmente la madre, ripercorrendo
i luoghi in cui è vissuta: il favoleggiato Messico, sua terra natale
da lei tanto rimpianta; la California e lo Wyoming, dove era vissuta con il
marito, negli anni in cui il matrimonio sembrava reggere. La vana ricerca lo
spinge a tornare in Irlanda dove è nato e dove la madre ha trascorso
gli ultimi anni della sua ormai delusa e tristissima vita coniugale. Ristabilire
un rapporto con il padre gli è difficile visto il filo costante di "orrenda
repulsione e di amore" che Conor prova per quell'uomo divenuto sempre più
asociale, irascibile, perso nei suoi "sogni biliosi". Forse l'autore
avrebbe potuto tenere la mano più leggera nel descriverci - in uno slancio
di eccessivo verismo -, gli sputi catarrosi e la sporcizia del vecchio, ma,
d'altra parte, non è nemmeno giusto essere schifiltosi, quando ci si
addentra nella lettura di un'opera di vero talento.
Conor vorrebbe scoprire il motivo che ha spinto la madre a scomparire, ma il
padre sembra vivere in uno stato di abulico abbandono, interessato ormai solo
alla pesca di un gigantesco salmone, forse un miraggio metaforico di tutto quello
che più non c'è, delle voragini d'assenza in cui è precipitata
la sua vita La metafora del grande pesce non è nuova al mondo della letteratura,
già Melville e Hemingway hanno tratto suggestiva ispirazione da questo
enigmatico traslato.
Il vecchio non vuole ricordare, indossa un virtuale impermeabile dell'anima,
tale da impedirgli di soffrire, lascia che la vita gli scorra addosso come l'acqua
del fiume inquinato in cui si ostina a pescare, acqua che - per legge di natura
- non può arrestare il suo corso ("La legge del fiume, come diceva
sempre il vecchio. Che deve mandare avanti le cose").
Ormai il padre invecchiato è solo la parvenza dell'uomo che era, del
fotografo pieno di curiosa abilità, tanto artista da far dire al figlio:
"sembrava che ci fosse colore nelle foto in bianco e nero di mio padre,
come se in qualche modo si fosse infiltrato nel chiaroscuro e nelle ombre dei
suoi lavori; tanto che anni più tardi, quando mi mettevo a sedere nell'attico,
avrei potuto dire che il parasole era giallo, perché mi dava quella sensazione
precisa. Le sue foto mi trasmettevano questo".
Dell'avventuroso fotografo giramondo che aveva ritratto, con clic impietoso,
immagini cruente della guerra di Spagna, del bagliore corrusco degli incendi
delle foreste americane, della morte e dello squallore delle miniere messicane,
non resta nemmeno l'ombra. Nemmeno la più pallida traccia dell'uomo che
aveva fatto innamorare Juanita, la sensibilissima messicana, dotata di una sensuale,
bruna bellezza, della giovane che sentiva la poesia e il "colore"
del vento: "quello rosso soffiava la polvere del deserto, quello marrone
veniva dal fiume, quello grigio portava il profumo del mesquite, e uno
verde, stranissimo, un'estate arrivò carico di sciami di locuste".
Conor, nel silenzio assente del vecchio, riesce a far "parlare" soltanto
le foto ingiallite, scattate dal padre, che descrivono la vita della sua famiglia
e che gli riportano i giorni della speranza e della delusione di Juanita, nel
difficile intento di penetrare il nodo della sua misteriosa scomparsa.
La narrazione procede - espressa in un linguaggio di scabra e scagliosa poesia,
dove i tramonti possono colorarsi di "nicotina", perdendo la loro
altrimenti oleografica consistenza. Sapienti flash-back guidano il lettore,
quasi che il tempo si unifichi, fondendo passato e presente in un suggestivo,
struggente mosaico, saldato dal filo dell'inquietudine che permea tutto il romanzo,
un'angoscia sottile che spesso sa cancellare anche la distanza che corre tra
memoria e immaginazione, fatti realmente accaduti o soltanto pensati.
Abilità dello scrittore è anche quella di saper tenere vivo il
dubbio, sulla fine di Juanita, fino alle ultime pagine. Che sia realmente emigrata
in terre lontane o che sia annegata gettandosi nelle acque limacciose del fiume?
Corrono voci discordi e fantasmagoriche tra la squadra di ricerca che scandagliò
il fiume, dopo la sua scomparsa: "La mamma era andata in Cile, dove si
era innamorata di un dittatore militare: L'avevano vista a Dublino, con dei
nasturzi dietro le orecchie. Era uscita in barca in pieno temporale. Era ricoverata
all'ospedale psichiatrico di Castelbar, dietro le grandi inferriate simili a
bocche spalancate. Ma per me era tornata nella sua terra, e una mattina avrei
ricevuto una lettera scritta di suo pugno".
Grazia Giordani