Recensioni e servizi culturali
La sposa ebrea di Luigi Guarnieri, Rizzoli
Enigmi ed amore intorno a un quadro
Certo, l’espediente del “metaromanzo” non è
un fatto nuovo nel mondo letterario, basterebbe pensare ai pirandelliani “Sei
personaggi in cerca d’autore” o a Calvino col suo “Se una
notte d’inverno un viaggiatore”, solo per portare due esempi in
merito, ma Luigi Guarnieri col suo nuovo romanzo “La sposa ebrea”
(Rizzoli, pp.224, euro 17) sa dare una svolta suggestiva a questo già
frequentato genere letterario, colorandolo di un’inquietudine, sapientemente
espressa, che vibra nella pagina dall’inizio alla fine, evidenziando inoltre
la capacità di regalare cultura e finezza a un filone - quello del thriller
d’arte, se così lo possiamo definire - che in questi anni abbiamo
visto avere successo di facile cassetta.
Dopo “La doppia vita di Vermeer”- che l’ha fatto entrare in
cinquina al Campiello – Guarnirei torna a coniugare letteratura e arte
con la sua nuova opera intitolata al celebre dipinto di Rembrandt, solleticato
dal mistero che aleggia attorno all’identità dei due amanti ritratti
ne “La sposa ebrea”. La critica d’arte, attraverso i secoli,
ha fatto congetture mai del tutto risolte sul profilo storico dei due enigmatici
personaggi che il maestro olandese ha saputo congiungere nel gesto di tenera
audacia erotica dell’uomo che posa delicatamente la mano sul seno della
giovane amata che gli contraccambia la carezza. I critici più accreditati
hanno pensato trattarsi dell’episodio di Isacco e Rebecca, all’epoca
in cui – fingendosi fratelli e sorella – furono scoperti amanti
dal re Abimelech. La fantasia dello scrittore ha invece volato alto, filtrando
i dati storici, secondo il suo estro, pronto a creare due vicende, sfasate nel
tempo, ma collegate nella sostanza. Secondo il suo narrare, siamo a Parigi al
cadere degli anni Novanta e ad Amsterdam a metà Seicento.
Nel 1987 una Parigi, descritta per essenziali fotogrammi non privi di scabra
poesia, è teatro dell’incontro di uno scrittore – Leo Gualtieri,
nullafacente e depresso, oseremmo dire un Bukowsky dei poveri, soprattutto per
il suo amore alla bottiglia -, con un’ebrea olandese Rebecca Lopes da
Costa, una giovane dotata di uno charme tenebroso, una bellezza “letale”,
secondo la visione dell’autore. “Era di una bellezza insolita, obliqua,
tenebrosa. Alta, magrissima. Il volto era fine ed elegante, ma di un pallore
cimiteriale. Non portava collane né anelli, solo un nastrino –
sempre di velluto rosso – alla gola. Aveva un naso importante (…).Capelli
lunghissimi, lisci e corvini…”.
Insomma, questa maliosa Rebecca, singolare studiosa d’arte, più
simile a “Mortisia” che a un’eroina attuale dello schermo,
s’innamora follemente dello spiantato scrittore italiano che si piazza
in casa sua, incapace di contraccambiare un sentimento così totalizzante.
Le pagine in cui viene descritta l’inadeguatezza affettiva di Leo sono
venate di un’ironia esistenziale e di un senso critico persino divertente,
tanto l’autore – analizzandole – sembra conoscere simili sentimenti.
La capacità di approfittarsi della situazione, da parte dello scrittore
fallito, che finalmente potrà scrivere un nobile romanzo – quello
che noi stiamo leggendo – arriverà al punto di appropriarsi del
“quaderno giallo” dove Rebecca sta esprimendo la sua ipotesi sull’identità
dei due amanti raffigurati nel quadro di Rembrandt.
Veniamo quindi trasportati ad Amsterdam (secondo teatro della narrazione). Siamo
nel 1665. Qui, nell’accurata ambientazione ebraica, riviviamo le pagine
della sofferta vicenda amorosa di Abigail Lopez da Costa – affetta da
una misteriosa malattia – col suo medico, più avanti negli anni
di lei, Ephraim Paradises, fatto scomunicare dal padre della ragazza, con la
scusa dell’eresia, ma in realtà per vendicarsi del disapprovato
e ritenuto disdicevole legame amoroso con la giovane.
Guarnirei, attraverso la penna di Rebecca, sostiene quindi la letteraria tesi
per cui Abigail ed Ephraim sarebbero i protagonisti del citato famoso ritratto
di Rembrandt.
Mosso da rimorsi per il furto dell’ispirazione sottratta alla sfortunata
studiosa che tanto lo aveva amato, al punto da tentare il suicidio per la delusione
amorosa, Leo, ormai imborghesito e più stabile che in passato –
siamo nel 2003 – torna a Parigi per chiedere perdono a una Rebecca ormai
diventata folle, tanto finzione e realtà le hanno obnubilata la mente.
Un romanzo così costruito su quinte temporali scorrevoli, legate dal
fil rouge di intriganti rimandi tra vero, verosimile, reale e metafisico, possiede
anche la suggestione del tema drammatico dell’amore che sopravvive alla
morte, sottolineato dalla marca semantica dell’autore, capace di farci
letterariamente immedesimare nelle sue tenebrose, coinvolgenti atmosfere.
Grazia Giordani