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Le anime grigie di Philippe Claudel, Ponte alle Grazie

IL “GRIGIO” COLORE VINCENTE DEGLI UMANI DESTINI
“Carogne, santi, non ne ho mi visti. Niente è tutto nero o tutto bianco, è il grigio che la vince. Idem gli uomini e le loro anime... Sei un’anima grigia, graziosamente grigia, come noi tutti... “ Questa affermazione, messa in bocca a Joséphine, una vecchia in odore di stregoneria, uno dei personaggi minori del nuovo romanzo di Philippe Claudel – Le anime grigie (“Les âmes grises”) – che Ponte alle Grazie porta in Italia nella frizzante traduzione di Francesco Bruno, sembra contenere in nuce tutto l’assunto filosofico che lo scrittore intende dimostrare.
Siamo di fronte a un originalissimo thriller metafisico, scritto con rara maestria, da un autore che ha saputo guadagnare traguardi letterari importanti come i premi Goncourt e Renaudot e che ha visto questa sua ultima opera tradotta in ben sedici lingue.
Teatro dell’ azione è un villaggio del nord-est della Francia. Siamo nel 1917 e infuria la prima guerra mondiale. A fare da controcanto agli avvenimenti è il continuo rombare del cannone, il lamento dei feriti, lo scorrere del sangue, la desolazione di un clima di frontiera acutamente sofferto.
Voce narrante e scrivente – poiché sta, vent’anni dopo, mettendo nero su bianco le vicende nelle pagine di un diario – è quella di un poliziotto che ricostruisce i fatti, inframmezzando quelli esterni e fondendoli addirittura, con i suoi personali. Quindi, ci troviamo di fronte a un mosaico a tessere mobili che guizzano sotto i nostri occhi, inducendoci a un viaggio serpentino, sinuoso com’è l’animo umano, pieno di contraddizioni, di ombre e zone grigie che l’autore sa così sapientemente esplorare.
Una deliziosa bambina di dieci anni – detta Bella di giorno – viene trovata morta in un canale (“La terra schioccava sotto i tacchi e il rumore echeggiava fin dentro la nuca. Ricordo la grande coperta che avevano gettato sul corpo della piccina che si è subito inzuppata”). Il romanzo si apre con un’indagine poliziesca a tinte fosche, in un clima sempre più macabro, ma non tardiamo ad accorgerci che man mano che l’indagine procede, l’intenzione dell’autore è quello di farci entrare dentro un affresco di più vasta fattura, un quadro della vita di provincia di quel periodo bellico, popolato da personaggi umili, frequentatori di osterie, dominati da figure padronali aride, quando non addirittura “fetenti”, per dirla con Claudel.
E così incontriamo Pierre-Ange Destinat, personaggio chiave della narrazione, procuratore per oltre trent’anni a V. che “esercitò il suo mestiere come un orologio meccanico”, solitario e triste abitante del Castello, rimasto vedovo, in età giovanile, di un’amatissima moglie. È chiaro che il poliziotto lo sospetta, trovando impedimenti ed ostacoli alle sue indagini nell’ostilità di un giudice e un colonnello, decisi a proteggere il procuratore. La colpa cadrà sulle spalle di un giovane bretone, con conseguente condanna a morte. L’abilità dell’autore sta nel mantenere irrisolto il delitto fino in fondo.
Chi è stato veramente il colpevole? Il giovane bretone che sapremo, in seguito, accusato di crimini simili o il tenebroso procuratore che collezionava foto di giovani somiglianti alla sua rimpianta consorte?
La vicenda noir è comunque poca cosa, solo un pretesto perché Claudel possa farci navigare dentro il mare addolorato delle miserie umane, della solitudine, del nero sconforto che solo la pietà e la consapevolezza di un destino comune riesce ad alleviare.
Lo stesso poliziotto, che vent’anni dopo gli avvenimenti, confortato da qualche bottiglia di troppo, sta scrivendo e ripercorrendo i terribili fatti, all’epoca del delitto, colpito da un dolore senza consolazione, ha visto morire l’amatissima moglie, proprio dando alla luce il loro primo figlio.
E qui, giallo nel giallo, il romanzo si chiude con un finale a sorpresa: Philippe Claudel è veramente uno scrittore da non perdere assolutamente di vista.

Grazia Giordani

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