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Napolitan graffiti di Raffaele La Capria, Rizzoli

VOCI DI SCRITTORI IN UNA NAPOLI DELLA MEMORIA
Sembrerebbero avere la forza di profezia biblica - seppure involontaria - le pagine uscite dalla penna di Raffaele La Capria in Napolitan graffiti, pubblicato per i tipi della Rizzoli, in cui l'autore, dopo aver stigmatizzato alcuni comportamenti, a suo giudizio, negativi di Anna Maria Ortese e di Luigi Compagnone, è obbligato a scrivere in epigrafe ai due brani: "Compagnone è morto mentre stavo rivedendo il dattiloscritto di questo libro dedicato agli amici e agli scrittori che ho frequentato, mi dispiace che lui non possa leggerlo. Senza la sua vigile disapprovazione, che gusto c'è a scriverlo?" E, più oltre: "La scrittura di questi graffiti è accompagnata, ahimè, da funebri rintocchi. Avevo appena registrato la morte di Luigi Compagnone, ed ecco che adesso, mentre sto correggendo le bozze, mi arriva la notizia della morte di Anna Maria Ortese. Ne avevo quasi il presentimento, quasi che la prima mi annunciasse la seconda".
La Capria ha dato alle stampe questa silloge di saggi, molti dei quali sono già apparsi in "Nuovi Argomenti", nel "Corriere della Sera" e ne "Il Mattino", con il preciso intento di salvare nomi e voci degli scrittori che ha frequentato nella sua città natale, Napoli, dalla "damnatio memoriae", dall'inesorabile sabbia dell'oblio che seppellisce uomini e cose. Il risultato è quello di un suggestivo mosaico in cui alcune tessere brillano di una luce particolarmente intelligente.
Oltre al già citato saggio su Compagnone, cantore di una "Napoli senza grazia", "non solo sgraziata e disgraziata, ma anche sans merci, e cioè spietata, che non perdona", un poeta arrabbiato, ma non preda di un odio "assoluto, radicale, implacabile", e a quello sulla Ortese di cui La Capria non condivide gli impietosi ritratti dal vero, incuranti di rendere riconoscibili i personaggi (vedi il capitolo Il silenzio della ragione, tratto dal romanzo Il mare non bagna Napoli, di cui va detto che il nostro saggista non nega la grandezza letteraria), abbiamo trovato di raro acume critico Due ipotesi su Domenico Rea. Secondo La Capria - riguardo al lessico - Rea "non si rifece alla letteratura italiana a lui contemporanea, ma riprese una tradizione più antica, la tradizione europea interrotta a Napoli dalla rivoluzione del 1799. E dovette perciò fare tutto da solo, inventando tutto da sé, ricominciando tutto da zero. (...) E così si trovò nelle mani un italiano diverso, aspro e duro, sboccato e raffinato che però non aveva la ristrettezza piccolo-borghese dell'italiano medio "unitario", né la rozzezza, l'approssimazione e i limiti dell'italiano "borbonico", e non era nemmeno separato, come l'elegante italiano letterario di Savinio e di Bontempelli, dalla popolazione dei parlanti". Il "taglio drastico" nel linguaggio di Rea, al nostro critico letterario appare dunque rapportabile a quello americano dei racconti di Raymond Carver.
Anche se Compagnone - a quanto ipotizza con autoironia il nostro autore - avrebbe deriso il pezzo d'apertura della silloge, noi pur trovandolo piacevolmente barocco, siamo portati a considerare una chicca questa ouverture in cui La Capria ci regala un pezzo di bravura sulle luci della sua città, ora apocalittiche come "luci d'Assunzione", flagellate da "fasci d'argento, come le canne di un organo", ora di un tramonto giallo, "il famoso giallo Napoli, che è una tonalità indicata così nella scala dei gialli, accanto al giallo cadmio, o al giallo cromo. (...) Un colore amato qui, che ogni tanto appare nell'intonaco d'un palazzo neoclassico della Napoli Nobilissima, accostato di solito al bianco o al grigio. Amato e però indefinibile: come Napoli."
Come non provare un'invidia buona (ma esiste poi un sentimento simile?) per i ragazzi che intorno al 1945 avevano ideato la rivista "Sud"? E La Capria era dei loro. Faceva parte di quella gioventù illuminata che traduceva Eliot e Gide che commentava Hemingway, in una sinergia intellettuale veramente entusiasmante.
Pasquale Prunas era il direttore di "Sud", di questo ardito ed ingenuo foglio, bandiera di folgoranti e progressiste ricerche e di fervide speranze. "Sin da questo primo numero apparivano i nomi di Ghirelli, Patroni Griffi, Compagnone, Carla De Riso, redattore capo, e Stefanile, cui si aggiungevano quelli della Ortese e di Scognamiglio".
Mentre il saggista sfoglia per noi queste carte ingiallite, dai bordi sfrangiati dal tempo che non perdona, gli siamo grati di farci conoscere così da vicino i suoi amici e i loro pensieri. La galleria dei ritratti è più che mai coinvolgente, ma non possiamo negare di essere rimasti particolarmente toccati dal profilo di Gianni Scognamiglio, il maledetto.
"Quel giovane dai grandi occhi scuri - umiliati e offesi - i capelli divisi in due bande che gli cadono sulla fronte e il sorriso enigmatico che gli increspa appena le labbra, quel giovane serio, dall'aria misteriosa che sembra uscito da un romanzo di Dostoevskij", quel giovane - mentre leggiamo il graffito della sua descrizione - ha già preso il nostro cuore. Sia perché era il più povero del gruppo, sia perché era perseguitato da incubi e tormenti della mente che lo condussero - giovanissimo - allo sfacelo assoluto. Sia - e non ultima ragione - perché sentiamo la pietà vera che resta struggente nel ricordo dell'amico. Componeva, questo sventurato artista, geniali mix di musica e parole, "oratori radiofonici", "lirifilm", aveva un'acuta cultura musicale e conversava con gli amici di Mahler, Webern e di Alban Berg. Chiuse i suoi giorni al manicomio "ultimo tra una schiera di "maledetti", da Poe a Rimbaud a Lautreamont. Ultimo, e ignoto, e da tutti ancor'oggi dimenticato."

Grazia Giordani

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