Recensioni e servizi culturali
Qualcuno ha ucciso il generale di Matteo Collura, Longanesi
L’antiGattopardo - Giovanni Corrao
nella Sicilia garibaldina
Certi scrittori sembrano essere rincorsi dalle trame da narrare, in
un inevitabile inseguimento che non offre loro scampo. Questa è l’immediata
sensazione che proviamo leggendo il nuovo romanzo di Matteo Collura Qualcuno
ha ucciso il generale (Longanesi, pp156, euro 13), in libreria dal prossimo
3 marzo. Ci sembra che l’autore – giornalista culturale del Corriere
della Sera – di cui abbiamo da tempo apprezzato la folta produzione di
romanzi e saggi, tra i quali: Associazione indigenti, Il Maestro di Regalpetra,
Eventi, In Sicilia e Alfabeto eretico, non abbia potuto sottrarsi all’invito
di quanti lo sollecitavano a mettere nero su bianco l’insabbiata vicenda
dell’ affascinante e controversa figura di Giovanni Corrao, il generale,
caro la cuore di Garibaldi, “precursore dei Mille”, un eroe avvolto
in vita e in morte, dentro aloni di irrisolto mistero. L’ispiratrice più
forte di questa sua biografia romanzata – che finisce piuttosto con l’essere
un affresco di Sicilia garibaldina come in nessun testo accreditato avremmo
mai potuto leggere - è stata certamente un’ agghiacciante fotografia.
Per cui leggiamo: “Una fotografia lo ritrae, cadavere mummificato, novantasette
anni dopo la morte. Il generale è tra due uomini, impettiti e seri, consapevoli,
nell’espressione grave, di essere immortalati in compagnia di un eroe
cui la Storia finalmente si è degnata di riconoscere la legittima gloria.
Ho sotto gli occhi la foto e continuo a ripetermi che non ho mai visto nulla
di più assurdo, di più macabro; nulla di più grottesco
e nello stesso tempo di più ingenua e caricaturale messa in scena”.
Va da sé che la mummia del generale, ritratta tra due parenti, dopo il
ritrovamento nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo, abbia tanto impressionato
lo scrittore da indurlo a minuziose ricerche e ricostruzioni di misconosciuti
avvenimenti, contagiando anche noi lettori di una curiosità sempre più
viva, man mano che si procede nella lettura di pagine abitate da sospetti, congiure,
folklore popolare; l’udito scosso dal fragore di cruente battaglie, l’olfatto
carezzato dal profumo dei giardini d’arance, lo sguardo ammaliato dal
fascino voluttuoso di un Meridione di allora e di adesso, espresso dall’autore
con grazia musicale.
Il profilo di questo “Generale dei picciotti”, in gioventù
saldatore di scafi, abile calafatato che “aveva buttato via quel mestiere
d’oro per correre dietro all’ingannevole sirena della rivoluzione”,
sbarcando a Messina per organizzare la rivolta dei Siciliani, ottenendo il sostegno
dei potentati locali alla spedizione dei Mille, esce a tutto tondo, possente
nella figura fisica di tenebroso gigante innamorato del rischio e dell’avventura,
calunniato ingiustamente dell’assassinio – per invidia – dell’amico
Rosolino Pilo, “cagliostresco” in alcune sue consuetudini di vita
esoteriche, sprezzante del pericolo, assai stimato e amato dall’eroe dei
due mondi. Per alcuni versi anche contraddittorio questo garibaldino sui generis
che – quando l’esercito governativo gli propose di arruolarsi col
grado di colonnello, accettò la nomina diminuita, rispetto a quella rimasta
integra di Bixio ed altri che entrarono nell’Arma col titolo di generale
– dimostrando una certa confusione d’idee, poca coerenza con la
sua statura naturale di spirito libero, non irreggimentato. Ma la divisa regolare
andava stretta al nostro indisciplinato condottiero che non tardò a spogliarsene
con rinuncia dei vantaggi annessi.
Fin dalle prime righe della narrazione colluriana, dentro cui trovano posto
suggestivi cammei di Crispi, Bixio, Garibaldi, Mazzini e Rosolino Pilo, rivisitati
in chiave umana, lontana dalla visione dei testi scolastici, sentiamo vibrare
l’interrogativo rimasto irrisolto sulla morte dell’ “antiGattopardo
siciliano”.
Chi era veramente quel Giovanni Corrao? Si era proprio rassegnato alla vita
di placido agricoltore, succeduta a quella di condottiero o covava ancora propositi
di rivolta contro l’ingratitudine istituzionale di promesse non mantenute
nei confronti della Sicilia? Sarebbe stato un riconosciuto eroe risorgimentale
questo “indomabile garibaldino cui le sconfitte non avevano scalfito i
battaglieri propositi” se un pretestuoso silenzio non l’avesse cancellato
dai libri della Storia? Chi gli ha tolto la vita con due colpi di lupara, proprio
in prossimità dell’anniversario della battaglia abortita in Aspromonte?
Collura ci induce ad uniformarci alla sua persuasione di un delitto di mafia,
su commissione dello Stato. Perché Corrao era diventato scomodo. Perché
Corrao era un capopopolo pericoloso a cui furono tributati funerali esageratamente
solenni e poi l’imbalsamazione nel convento dei Cappuccini, murato in
una nicchia, “affinché riposasse al riparo da possibili profanazioni”.
A ricordarlo ai posteri ora c’è il monumento di Villa Garibaldi
a Palermo, ma soprattutto c’è la riabilitazione nelle appassionate
pagine dello scrittore suo conterraneo che qui ha saputo rinverdire la curiosità,
restituendogli l’usurpata fama.
Grazia Giordani