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RICORDANDO FULVIO TOMIZZA A UN ANNO DALLA SCOMPARSA

Ripensare all'opera di Fulvio Tomizza, a un anno dalla sua scomparsa, non significa solo riprendere in mano i libri della sua vasta produzione letteraria, ma anche e soprattutto ricordare l'umanità di un uomo sempre attento al suo prossimo, con cuore gentile. Chi ha avuto la fortuna di essergli amico e di cogliere le sue confidenze, non può non essere rimasto colpito dai suoi racconti su quella zona aspra dell'entroterra istriano da cui proveniva, quella Materada d'Umago, la cui bellezza consisteva soprattutto nell'essere il luogo dove risuonava l'eco della sua prima giovinezza: qui era nato e vissuto fino ai vent'anni, in questa terra scabra affondavano le sue radici e gli usi e i costumi della sua famiglia e qui trascorreva, nella maturità, i suoi giorni da maggio a settembre nella casa colonica che aveva ristrutturato, coltivando un orto di cui andava fiero, perdendosi in lunghe passeggiate nell'uliveto che aveva messo a dimora con le sue stesse mani. Questa pausa tra il morire della primavera e il nascere dell'autunno, gli serviva per rinverdire la sua lettura dei classici, su cui si era formato e che tanto amava, e per pensare. Alternava i lavori agresti alla scrittura con un ritmo rasserenante, in attesa di ritornare in Via Giulia, a Trieste nella città di Laura, la dolce compagna della sua vita, modello di molte sue figure femminili nel romanzo.
Molto di Laura, che già avevamo notato ne "La città di Miriam" del 1972, troviamo in forma più sofferta, ne "I rapporti colpevoli" - uscito nel 1992, quando ancora Tomizza pubblicava per la Bompiani -, opera in cui l'autore ci offre "forse le pagine più belle e rivelatrici di tutta la sua opera - scrive in proposito Andrea Zanzotto -, in cui ritorna alle fonti della sua ispirazione, ma proiettandola nello specchio della maturità, di tutta la sua vasta esperienza tra vita e scrittura. In un movimento di situazioni narratologiche, giocate tra l'io e le sue moltiplicazioni, si sovrappongono il passato e il presente e l'incombere di un futuro declino, fra tremori e folate fuligginose. Entra così in scena una crudele chiamata in giudizio, verso le più diverse forme di autopunizione".
Con quest'opera, premiata con il "Boccaccio" ed entrata finalista al "Campiello", lo "scrittore di frontiera", come amava definirsi, diviso tra la città d'adozione italiana e quella natale istriana (tanto che, a chi gli chiedeva ragione della sua malinconia, usava rispondere: "Sarà la mia anima slava"), inizia il filone psicoanalitico, quello costellato da sogni rivelatori, da inquietudini oniriche angoscianti. Filone che - passando attraverso a "Nel chiaro della notte" (Mondatori, marzo 1999), uscito pochi mesi prima della scomparsa dell'autore (una raccolta di racconti in cui sogni cruenti e realtà allucinata si fondono in un' amalgama lacerante -) giunge all'opera postuma, da pochi giorni in libreria: "La visitatrice", ancora sulle note dei "sensi di colpa", quelli tanto spesso presenti nelle pagine di Dostoevskij o Bulgaskov, insomma nell'opera di autori di matrice slava, inclini a maceranti riflessioni nella scrittura. Un romanzo che l'autore teneva ancora in serbo, quasi faticasse a separarsene, impressionato egli stesso da certe verità che gli erano uscite sulla pagina, quando aveva scritto: "Vale la pena patire tutti i malumori, anche le più crudeli disgrazie e le meno sopportabili sofferenze, pur di sentirci compresi in questa certezza di esistere, al di fuori della quale non riusciamo a concepire che il nulla. Ma non è possibile che tutto si spenga all'improvviso senza alcun seguito; che la morte accidentale o lenta a progredire, sopprima questo impeto, tale evidenza fin accecante".
Sarebbe troppo facile parlare di presentimento, ammaestrati dal senno di poi, ma dal 1994 al 1999 nelle pagine tomizziane suona insistente una musica funebre, quasi preveggente della fine.
E sì che non gli erano mancate le soddisfazioni familiari con il matrimonio e la laurea della figlia Franca (era così fiero della sua bella tesi su Giordano Bruno) e la nascita della nipotina Elisabetta, a cui aveva dedicato "Franziska", uno dei romanzi più coinvolgenti della sua ultima produzione (Mondatori, agosto 1997). Eppure Tomizza non si era mai sentito, tranne in rari casi, veramente compreso e giustamente valutato dalla critica, da parte sua già severo ed autocritico fino all'eccesso. Forse anche perché era partito alla grande negli anni giovanili e - avendo conseguito i massimi premi letterari tra il 1969 e il 1977: il Viareggio con "L'albero dei sogni" e lo Strega con "La miglior vita" -, gli sembrava di non avere più nulla di importante ancora da vincere, se si eccettua il Campiello che l'aveva visto per quattro volte finalista, senza offrirgli la soddisfazione del premio estremo, quello che ancora gli mancava.
Lontano dai salotti letterari, avulso dal farsi avanti con la grancassa, mai partecipe di talk-show, di quelli con il giornalista imbonitore che sollecita gli spettatori all'acquisto dei libri reclamizzati a gran voce e con spreco di aggettivi, viveva nel chiuso della sua famiglia, affezionato a pochi e sceltissimi amici. Non dimenticava mai di rispondere a una lettera, di farsi vivo con chi dava segno di ricordarlo e di essergli legato.
Trenta libri, prevalentemente di narrativa, tradotti nelle principali lingue, una laurea in lettere honoris causa - conferitagli nel 1984 dall'Università di Trieste -, il Premio dello Stato Austriaco per la Letteratura Europea, assegnatogli a Vienna nel 1979, certamente non sono soddisfazioni ed onori che tocchino a chiunque, eppure Tomizza non si liberava da una malinconia esistenziale profonda che riusciva a velare soltanto con la sua sottile ironia, arma - questa - degli uomini intelligenti che non si montano la testa per il successo.
La vedova Laura Levi Tomizza - che, come dicevamo più sopra, gli ha ispirato spesso riuscite figure femminili letterarie - si è presa cura della pubblicazione degli inediti e di una mostra itinerante che sembra attraverserà le principali città italiane (partita in aprile da Vienna, una città molto cara all'autore) con materiale fotografico,
romanzi e documenti atti a tenere viva la memoria del marito, uno scrittore di razza, un vero signore della penna.

Grazia Giordani

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