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Sogna un piccolo sogno di me di Merete Morken Andersen, Salani
GENITORI IN ADDOLORATO CONFRONTO SULLA
AFRAGILITÀ DELLA VITA DI UN FIGLIO
Magari senza nemmeno conoscersi e senza nulla sapere l’uno dell’altro,
vivendo persino in luoghi agli antipodi, alcuni scrittori, stranamente, affrontano
gli stessi temi. Questa è l’impressione che abbiamo avuto leggendo
Sogna un piccolo sogno di me di Merete Morken Andersen che Salani ci propone
nell’accurata traduzione di Laura Cangemi. L’analogia ci appare
col romanzo Non ti muovere di Margaret Mazzantini, in quanto – in entrambe
le opere – incontriamo lo sgomento di genitori che si interrogano sul
mistero della morte e sulla fragilità della vita di un figlio. Nel romanzo
dell’autrice italiana – con epilogo confortante - protagonista è
soprattutto il padre; in quello della norvegese – che si apre con la morte
della figlia non solo temuta, ma accertata, entrambi i genitori entrano in addolorato
confronto sul mistero della terribile perdita. Tra i due romanzi c’è
persino una simmetria nel refrain che si fa titolo nel primo: “non ti
muovere” e che diventa “non andare” nel secondo, ripetuto
in parecchie pagine. Certo, il linguaggio è diverso, persino le luci
sono contrastanti: mediterranee quelle nostrane, algide ed opalescenti quelle
nordiche che, subito nell’incipit, illuminano l’atroce scena del
corpo rigido e composto di Ebba che si è impiccata al ramo di un albero,
proprio nel luogo dei suoi giochi infantili.
Chissà che bel film avrebbe saputo trarne Bergman! Questo romanzo sembrerebbe
un copione già pronto per lui, così il cerchio dell’analogia
si chiuderebbe in perfetta pienezza, visto che Non ti muovere non si è
fatto mancare nulla, essendo già stato splendidamente tradotto in film
proprio dal marito della Mazzantini.
La Andersen ci fa entrare in pagine strazianti anche perché la figura
della giovane suicida ha tratti deliziosi, e si sa che gli autori di abile penna
sanno farci affezionare ai bei personaggi. Chi potrebbe mai dimenticare, a questo
proposito, il personaggio del piccolo Useppe ne La Storia di Elsa Morante?
Tornando ai genitori del romanzo norvegese, Johan e Judith si sono molto amati,
travolti da un’iniziale caldissima passione, ma poi il sentimento si è
incrinato perché gli snobismi e il senso di superiorità dell’estrosa
musicista, hanno finito con l’avvilire il marito che si è sentito
“manipolato” ed incompreso, nonché poco considerato.
“Cerco di ricordare tutto ciò che è successo tra me e Judith
– afferma Johan, nell’immaginario colloquio con la figlia –
di seguire tutti i piccoli movimenti e spostamenti che fanno sì che due
persone possano passare da un innamoramento estatico a una cortina di ghiaccio
nel giro di pochi anni: brevi, miseri anni”.
Umiliato dall’artista, in vero abbastanza spocchiosa, Johan troverà
consolazione e si creerà una nuova famiglia con Minna, una simpatica
e sensibile bibliotecaria, esatto opposto di Judith, certo non avvenente e briosa
come la prima moglie, ma capace di rassicuranti sentimenti nei confronti del
marito, da cui avrà anche una nuova figlia.
Judith, angosciata dalla sindrome dell’abbandono, non sa capire –
lei che si è concessa avventure extraconiugali con forte disinvoltura
– l’atteggiamento tutto d’un pezzo di Johan che non è
capace di vivere nell’inganno e nell’ambiguità.
Capro espiatorio di questi disagi familiari ( e qui tutto il mondo è
paese), sarà proprio la dolce Ebba, innamorata e a sua volta delusa da
Erlend, un volubile ragazzo, mutevole negli affetti, come spesso si può
essere a quell’età.
Riassumere una trama fatta soprattutto di macerazioni interiori e contorcimenti
dell’anima è impresa quasi presuntuosa, poiché è
impossibile in poche righe rendere il contorto viaggio dentro i meandri del
cuore che l’autrice sa condurre così abilmente, anche se –
nelle pagine conclusive – quelle del confronto diretto degli ex coniugi
che non parlano più virtualmente alla figlia, ma dialogano realmente
tra loro, quelle del regresso di Judith al mondo dell’infanzia, fortemente
teatrali, avvertiamo qualche forzatura e qualche lungaggine che, evitata, avrebbe
resa più snella la narrazione.
Premio della Critica Norvegese 2003, il libro della Andersen, sa commuoverci
nel profondo, pervaso da una drammaticità quasi metafisica, attraversato
da un dolore alieno da retorica che si fa nostro, richiamandoci il teatro di
Ibsen, perfettamente in carattere con lo spirito di quella terra.
Grazia Giordani