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Una casa a Bali di Colin McPhee, Neri Pozza

SOGNANDO BALI, ALLA RICERCA DEL PARADISO PERDUTO
E’ stato definito da Adrian Vickers uno dei migliori libri sul Paradiso perduto», Una casa a Bali di Colin McPhee, che Neri Pozza propone ben tradotto da Alessandro Barbieri, nella collana diretta da Stefano Malatesta. Ed è appunto il curatore del volume a condurci sapientemente per mano nella pagina fantasiosa dell’autore – morto, purtroppo, nel 1964, distrutto dall’ alcol – sottolineando, con rammarico come McPhee non potesse «immaginare solo lontanamente come il turismo di massa avrebbe ridotto l’isola. Ma che può esser presa a modello ideale di un mondo che per esser stato troppo sognato, probabilmente non è mai esistito se non nei desideri di chi l’ha così intensamente amato».
L’isola di Bali (fino al secolo scorso abitata da una popolazione accusata di una ferocia non riscontrabile in altri luoghi dell’Indonesia) subendo poi un rovesciamento, è dunque stato un mito degli anni Trenta, quelli dell’autore, e oggi forse ci deluderebbe, se la visitassimo, ingolositi dalle pagine di favola e soprattutto dalla descrizione della splendida casa, prospiciente il fiume, immersa in una natura da vacanze da privilegiati, «costruita secondo lo stile locale, diversi vani a se stanti, uno per dormire, una sala principale, il bagno, la rimessa. Avrei avuto anche il tempietto, costituito da un gruppo di altarini nell’angolo a nord-est del terreno. Queste costruzioni avrebbero avuto il tetto di paglia: tutti i materiali tranne quello necessario per i pavimenti, cemento fine del Borneo, si trovavano nell’isola. Volevo che la casa fosse costruita rapidamente, ma Gusti Lusuh mi distolse presto da un’idea che sapeva tanto di “straniero”: non era la stagione adatta al taglio del bambù; la buona erba lalang per il tetto non aveva raggiunto la giusta altezza, ci sarebbe voluto del tempo per trovare il legno di carpine per i pilastri e il tek per gli scaffali della biblioteca. Inoltre, non si potevano gettare le fondamenta prima di un giorno propizio, in cui chiedere agli dei il permesso di scavare la terra».
Il mito di Bali, quale isola dell’amore libero, paradiso perduto e ritrovato, è nato da un gruppo di artisti e intellettuali europei lì stabiliti negli anni Venti-Trenta, con l’illusione di fuggire dal veleno della civiltà europea, densa di minacce anche oggettive. Nel secondo dopoguerra, la fama dell’isola venne enfatizzata, appunto, da Una casa a Bali, il libro più suggestivo su quei luoghi tanto mitizzati, che Mc Phee scrisse dopo aver abbandonato la sua sempre rimpianta isola e la casa stupenda di cui più sopra abbiamo letto la minuziosa descrizione, con vista sul fiume.
L’autore, con penna elegante, sa regalarci la visione di un mondo ora perduto, studiando e analizzando una musica locale mai sentita, in seguito assimilata alle musiche seriali ed atonali degli albori del secolo che ci lasciamo alle spalle, «servendosi di una scrittura – nota ancora Malatesta – in cui l’attrazione fatale provata da Colin McPhee è ironicamente commentata senza lasciarci presagire la tragica fine del suo autore».
Colin McPhee, nato a Montreal, in Canada, nel 900 da madre canadese e padre scozzese, musicista e compositore dagli studi pregiati – tra i suoi maestri Edgar Varèse – diventò un valente pianista. Dopo aver ascoltato, nel 1929 a Manhattan, attraverso uno dei primi grammofoni la musica di un gamelon, folgorato da questa melodia, nuova alla sua esperienza, decise di recarsi a a Bali per approfondirne gli studi. Rimase nell’isola circa dieci anni e incoraggiato dalla famosa antropologa Margaret Mead si impegnò in puntigliosi studi sulla musica del luogo.
Ritornato negli States, continuò a comporre musica, straziato da un’acuta nostalgia per l’isola di sogno e fu la cirrosi epatica, procuratagli dall’alcol, a porre fine ai suoi giorni.
La scrittura vaporosa del suo libro non farebbe certo presagire il dramma che covava nel suo intimo, condiviso da molti artisti e scrittori della sua epoca, anche se – nelle pagine finali del suo scritto – già sentiamo il rammarico di chi sta dicendo addio a un luogo tanto amato.
«Quando il battello raggiunse il centro del canale, la pioggia ricominciò a cadere improvvisamente, come un greve lenzuolo d’argento, e in un attimo cancellò l’isola dalla vista».

Grazia Giordani

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