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Una vita di Colette di Judith Thurman, Feltrinelli
LA VITA DI UNA GRANDE SCRITTRICE TRASGRESSIVO
MITO DEL NOVECENTO
Scritto con la grazia narrativa, propria a una scrittrice di talento, e con
l'occhio indagatore di una ricercatrice puntigliosa, a caccia di inediti e di
prima d'ora "non detto", Judith Thurman, nell'offrirci il laborioso
saggio "Una vita di Colette" - sottotitolato "I segreti della
carne", pubblicato dalla Feltrinelli, tradotto da Bruno Amato, curato con
acume critico da Cinzia Bigliosi -, ci regala anche un lungo spaccato di vita,
compreso tra la "fin de siècle" e la prima metà del
Novecento.
Certo, mettere nero su bianco la lunga e contraddittoria esistenza di Sidonie
Gabrielle Colette (1873-1954), riuscendo a dipingerne un ritratto nuovo, che
non fosse una mera ripetizione di quanto già avevano scritto in maniera
più evasiva ed accademicamente asettica, Herbert Lottman e, più
recentemente, Alain Brunet e Claude Pichois, non deve essere stata impresa facile,
visto che la saggista americana - attenta studiosa delle personalità
che hanno segnato il secolo da poco passato - ha impiegato quasi un decennio,
pur non essendo nuova a queste fatiche letterarie, insignita, proprio per la
sua capacità di studiosa, del National Book Award for Biography nel 1983.
Nell'arduo compito, la Thurman riesce "a spiegare la vita attraverso l'opera
e contemporaneamente l'opera attraverso la vita", evitando di cadere nell'insidia
di una speculare identificazione, facile trabocchetto aperto alla penna di biografi
faciloni, troppo pronti a sovrapporre geometricamente il vissuto reale sopra
quello immaginato dall'autore.
La ricercatrice di Manhattan non edulcora, non nasconde lati imbarazzanti quali
il libertinaggio, il lesbismo, l'incesto, la facilità al tradimento nella
vita della scrittrice, non tenta giustificazioni o reticenze, ma narra con partecipe
lucidità la vita di una delle più grandi penne francesi al femminile,
trascinando anche noi al suo fianco, palpitanti ammiratori della inquietante
lolita che cede alle lusinghe del maturo seduttore, l'ambiguo Willy, suo mentore,
corrotto pigmalione e suo iniziatore al mondo delle lettere. Siamo fortemente
tentati di riprendere in mano il ciclo pruriginoso delle "Claudine",
ingenuamente perverse, come l'autrice che le ha scritte.
Attorno a Colette vediamo palpitare una miriade di nomi illustri di letterati
e scrittori del tempo. Assieme alla bella provinciale abbiamo l'illusione di
dialogare con Proust che diede segno di meravigliata approvazione nei confronti
della sua opera: "Signora, scommetto che non si sarebbe mai immaginata
di ricevere le mie felicitazioni - le scriveva - io stesso sono totalmente stupito
dal fatto che le sto scrivendo, totalmente stupito dal piacere che ho provato
leggendola. Ho divorato "Chéri" in un baleno. Che ammirevole
argomento avete scelto! E con che intelligenza, che maestria, che comprensione
dei segreti meno confessati della carne".
Sì la "carne", proprio lei, è uno dei motivi conduttori
dell'esistenza di questa autrice candidamente morbosa: la troviamo costantemente
nella sua pagina in mille sfaccettature diverse - nel parlarci di amori dispari,
spaiati per età dei partners -, lo constatiamo nella sua vita senza falsi
pudori; all'inizio spinta dal primo marito fedifrago e corruttore (spesso questi
disinibiti coniugi godevano le grazie della stessa amante a "mezzadria"),
poi lanciata, per sua scelta, in convivenze omosessuali (particolarmente intensa
quella con Missy di nobilissima schiatta).
I tre matrimoni di Colette (sfortunati i primi due, con lo scrittore-pigmalione
Willy e con il nobile diplomatico de Jouvenel; felicissimo l'ultimo con il giovane
ebreo Goudeket, quando la scrittrice era già in età matura ) e
le sue trasgressioni molteplici che la spinsero persino a una storia d'amore
incestuoso con il figliastro di seconde nozze, sono inframmezzate da vicende
storiche che le vivono intorno, senza toccarla troppo, vista l'"astoricità"
della sua scrittura: "l' affaire Dreyfus" e le due importanti guerre
del suo secolo, non sembrano coinvolgerla letterariamente. Nella sua spumeggiante
pagina c'è maggior posto per i soprassalti del cuore e della carne che
per le vicende pubbliche, quelle che toccano l'umanità.
Simone de Beauvoir la vede come "l'unica vera grande scrittrice di Francia".
Colette non si è fatta mancare nulla: autrice anche di testi teatrali,
giornalista, critico letterario, d'arte, musicale, mimo, cantante di music hall,
estetista, commerciante di cosmetici, feroce animalista (adorava i gatti, propensione
- questa - di molti artisti), è stata tutto questo e molto di più,
come sa con sottile bravura mettere in luce la Thurman.
La sua forza sono state le contraddizioni: esorcizzare la paura della morte,
affermando un disinteresse tale da spingerla a dire: "la morte non mi interessa,
nemmeno la mia" ed evitando di assistere ala fine della madre, che pure
era stata un punto fermo nella sua vita, quella ironica, intelligente Sido che
spesso l'aveva messa in riga, consigliata, con affettuosa durezza. Si era detta
antisemita, così poco "dreyfusiana", durante il celebre processo,
aveva poi sposato il giovane ebreo Goudeket, prodigandosi con tutta se stessa
per sottrarlo alla persecuzione nazista. E fu buona cosa, visto l'impareggiabile
conforto che il suo ultimo marito le prodigò nei suoi anni di malattia
e di immobilità in una seggiola a rotelle, pena indicibile, per una donna
che era stata ballerina e ginnasta, maniaca della sua bellezza estetica.
Non seppe essere madre, nel senso tradizionale della parola e la sua malinconica
figlia, soprannominata "Bel-Gazou", dovette soffrire molto di questo
disinteresse, di questo autoimposto, innaturale distacco.
Insignita delle più alte onorificenze accademiche francesi, adorata,
odiata, desiderata, respinta, vagheggiata, rimpianta, criticata, non le fu dato
di vedere il "coup de théâtre" che forse (chissà?)
l'avrebbe maggiormente lusingata: esser "protagonista" dei primi funerali
di Stato che la Repubblica avesse mai concesso a una donna.
Grazia Giordani